domenica 4 maggio 2014

Il declino della romanità.


Tutti i quotidiani di tutto il mondo hanno al loro interno una sezione dedicata alle lettere dei cittadini che scrivono sui problemi della città in cui si pubblica il giornale. Sono lettere variegate che trattano lamentele, pareri, proposte e ringraziamenti in genere riferiti ai servizi offerti dalla città e/o alle persone che in essa operano, in modo da esprimere gradimenti o delusioni. Queste rubriche sono importanti perché danno il polso della situazione relativamente al tipo di vita che si conduce nella città. Ebbene, ogni mattina, quando leggiamo il giornale, proviamo sempre un po’ di ansia nel momento in cui voltando pagina arriviamo a questa rubrica. Puntualmente troviamo rari apprezzamenti e moltissime proteste. Per chi non l’avesse capito stiamo parlando della capitale, cioè di quell’incredibile ammasso di case e di persone che vanno sotto il nome della città di Roma. Con questa chiave di lettura, e con altri indicatori, ci siamo resi conto che la capitale sta vivendo da molti lustri non solo un tragico momento di decadenza socio-economica ma un autentico regresso morale ed etico sotto il profilo della vita relazionale e comunicativa dei suoi abitanti. Vogliamo parlarne perché riteniamo che ciò che ci è caduto sulla testa non è un castigo divino ma un segno della inettitudine e della incapacità della cittadinanza a eleggere rappresentanti adeguati e produrre una vita retta, piena di senso. Non vogliamo stancare il lettore costringendolo a leggere elenchi di promesse non mantenute e liste di prescrizioni per imporre il cambiamento. Non ci compete e non lo vogliamo fare. A noi piace piuttosto segnalare alcune delle cause di questo fenomeno che stanno uccidendo la vita della città. Certo la crisi economica morde pesantemente tutti ma non è solo questo. Sarebbe auspicabile che la città e i suoi abitanti collaborassero fortemente a un progetto di rinascita che invece manca del tutto, una specie di Rinascimento che non dovrebbe riguardare solo la vita politica e l’etica dei cittadini e della classe politica che li governa ma dovrebbe interessare anche altri fattori, anch’essi pieni di senso ma apparentemente senza alcun riscontro. Adesso ne parleremo, però prima proponiamo una nostra idea relativa alla necessità di rendere obbligatorio per tutti gli amministratori (sindaco, presidenti dei municipi e in genere tutte quelle autorità amministrative e politiche che esercitano il loro lavoro nell’ambito delle decisioni che intervengono sulla vita dei cittadini) la lettura delle “rubriche dei giornali”. Dovrebbe cioè essere resa obbligatoria la lettura delle critiche e non solo quella delle lodi perché, com’è noto, si progredisce per mezzo delle critiche e non per mezzo delle adulazioni. Questa lettura dovrebbe avere come corollario l’obbligo per gli amministratori di mettere in discussione nei loro consigli comunali e municipali le idee generali più gettonate di protesta o di soddisfazione proposte dai cittadini per permettere pienamente la realizzazione della democrazia, cioè delle idee che vengano anche dal basso della società e non solo dall’alto. In breve, dovrebbero essere rese obbligatorie per legge non solo la discussione franca di alcune lettere “modello” ma soprattutto di creare le premesse giuridiche per prendere dei provvedimenti disciplinari contro gli amministratori responsabili ed evitare ciò che attualmente costituiscono i due scandali più gravi a Roma: l'inerzia e l'impunità. E cioè di impedire, tanto per fare un esempio palese, di licenziare l’intero Consiglio di amministrazione dell’Acea, nonostante che da anni piovano nei giornali migliaia di lettere di proteste contro l’arroganza e l’inefficienza di questa odiosa municipalizzata che nasconde i propri limiti e le proprie incapacità nascondendosi dietro l’«appartenenza» alla comunità locale, dietro l'idea di romanità che spesso è fonte di interessi tribali e di nepotismo dannoso per l’intera comunità cittadina. A questo proposito facciamo notare che l’eccessivo uso del dialetto romanesco nella vita sociale della città è in molti casi uno strumento funzionale a coprire gli egoismi di gruppi di potere locale. Per carità, nessuno qui desidera limitare l’uso del dialetto, sia chiaro. La richiesta è che un conto è l’uso, un altro è l’abuso, soprattutto in contesti in cui il dialetto dovrebbe essere evitato. Ci riferiamo alla comunicazione delle autorità, nelle attività scolastiche ordinarie, nella pubblica amministrazione che si rapporta con i cittadini, nei canali televisivi e radiofonici, etc. Tra le tante cose non si dimentichi che la città di Roma non è una città qualsiasi in Italia. Mentre in una piccola comunità locale l’intera vita sociale, con i suoi registri localistici specifici, si sviluppa in maniera totalizzante nella parlata dialettale che tutela fattori di identità e di comunanza di gruppo, in modo autoreferenziale, la città di Roma è la capitale della Repubblica che per vari motivi obbliga molti italiani non romani a vivere in interdipendenza con gli indigeni. E non è piacevole, oltre il minimo consentito, vedere dilagare una comunicazione basata quasi sempre, come dicono alcuni linguisti, su una fonetica fastidiosa del tipo: «a scecilia», «a ggente» e altre generiche espressioni romanesche di tipo esortativo e di giudizi non proprio piacevoli. Ci riferiamo a minacce e a insulti nonché ad apprezzamenti ed espressioni a sfondo sessuale che trovano nel dialetto romanesco adeguata rappresentazione dei peggiori istinti. Uno di questi è, caso unico al mondo, di prendersela con i morti degli altri. Ripetiamo che piace a tutti sentire qualche volta espressioni dialettali romanesche. Le grandi figure culturali della tradizione dialettale romanesca sono tali per l’efficacia comunicativa e la bellezza del dialetto romanesco: Giuseppe Gioachino Belli, Trilussa, Cesare Pascarella, Aldo Fabrizi & Altri sono stati maestri nell’insegnare il piacere dell’ascolto della parlata romanesca. Ma l’esagerazione non va bene. Il fatto è che la crisi perdurante, la mancanza di lavoro, e quindi di reddito, porta inevitabilmente a scivolare e a perdere il senso della misura di tutti. Ne stanno facendo le spese i soggetti più deboli che con l'avvento della modernità e la conseguente perdita di senso della società post-industriale dal punto di vista etico permette a gruppi più o meno numerosi di soggetti aggressivi e facinorosi l’uso della violenza verbale come strumento che spaccia pseudo-diritti degli indigeni maneschi nel voler vivere da veri e propri “bravi” di manzoniana memoria. Complici pericolosi di questa deriva della città di Roma alla violenza sono da un lato la continua perdita del senso dell’etica nei comportamenti della vita sociale e dall’altra l’assenza totale di controlli delle pubbliche autorità (polizia municipale in primo luogo) che producono ciò che ironicamente viene definito come epiteto per il bullo del quartiere l’espressione colorita ma efficace di «a ‘mpunito», segno del progressivo e inarrestabile affermarsi di una deriva della società romana che ha perduto il senso dei principi morali.

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