mercoledì 28 gennaio 2015

Il giovane favoloso un film diverso e necessario.


Stupore per una pellicola che è al di fuori della logica del nostro tempo. Da un punto di vista cinematografico il film «Il giovane favoloso» del regista Mario Martone è estraneo e lontano mille miglia dai film di azione e di violenza, da quelli comici come da quelli di sesso che siamo abituati a vedere quotidianamente da una cinematografia e una televisione aberranti e perverse. La visione lascia dietro di noi la sensazione del ricordo di qualcosa di lontano, di un mondo conosciuto ma allo stesso tempo caduto nell’oblio e adesso riscoperto con accenti nuovi e per alcuni aspetti disorientanti. Dietro allo stupore c’è poi qualcosa di più dei ricordi d’infanzia, recuperati qua e là nel film con frammenti di versi di poesie che ci fanno rivivere Giacomo Leopardi come un volto amico, conosciuto da sempre, un giovane di cui fidarsi perché compagno di giovinezza. C’è un universo di interiorità che avevamo relegato in soffitta, come si fa con i giocattoli della nostra infanzia, che adesso esce fuori allo scoperto e reclama riflessioni adeguate e considerazioni necessarie dopo la visione del film. Per parlare di Leopardi, del romantico e caro Giacomo, non è possibile escludere dall’analisi i giorni felici della nostra gioventù sui banchi di scuola che, come minimo, ci condizionano nella riflessione del film. Chi può dimenticare il nome Silvia senza avere provato emozioni e trepidazioni a non finire alla sola idea di immaginare un perfetto esempio di bella ragazza della nostra adolescenza possibile solo nei sogni o, meglio, nei versi di un poeta? Questa accoppiata formata da giorni lieti e spensierati della nostra giovinezza e del volto soave della fanciulla Silvia, è la base di una possibile riflessione, incanalata lungo una pista di ricordi e di emozioni che ci coinvolge tutti come spettatori interessati, in grado di suscitare parole sensate di commento del film. Non sappiamo se la nostra riflessione, per molti versi inadeguata, centrerà l’obiettivo. Probabilmente non sarà così perché è di sicuro carente e anche manchevole di una adeguata riflessione letteraria. Tuttavia noi tenteremo lo stesso di proporre il nostro punto di vista su Giacomo Leopardi del film di Martone. Noi non siamo esperti di cose letterarie ma abbiamo il coraggio di tentare una nostra personale recensione. In fondo in fondo si tratta solo del punto di vista di uno spettatore che ha visto il film. Per comprendere adeguatamente il “senso” della proposta cinematografica di Martone è necessario innanzitutto azzerare l’abitudine alla prassi delle visioni dei film contemporanei che normalmente si vedono nelle nostre sale cinematografiche. Qui - come si suol dire in questi casi - “il gioco si fa duro” e non è possibile distarsi né, peggio, fare appello a una filmografia deviante come è quella che purtroppo impera nella nostra contemporaneità. Film come quelli di Martone (ricordiamo anche il precedente “Noi credevamo”, con tutte le sue implicazioni socio-politiche) sono quasi sempre opere cinematografiche attinenti alle nostre esigenze di spiritualità, spesso legate alla dimensione storica della italianità, peraltro ormai ridotte al lumicino da una cinematografia odierna che deborda quasi sempre in volgarità e artificiosità, entrambe estranee al mondo di coloro che hanno avuto in Giacomo Leopardi un esemplare perfetto di poeta e uno stile di vita certamente di alto profilo lirico e pedagogico. La premessa al commento che propongo qui, parte dal presupposto che se si vogliono comprendere le ragioni di questo esempio di eccellente cinematografia è necessario uno sforzo di recupero di memoria degli studi letterari fatti a suo tempo. E forse non basta neanche. Probabilmente è necessario che si possa parlarne in modo più intimo e con sentimento. Altrimenti si fallisce. E, comunque, non è facile lo stesso perché siamo profondamente disabituati a commentare una cinematografia che tocca un gigante, forse un tabù, della nostra cultura letteraria. Qui il mondo di letteratura, di storia e di poesia nel quale la trama si dipana rappresenta una specie di introduzione, come quando si legge un romanzo e all’inizio l’Autore sente la necessità di fare una proposta di avviamento alla storia per spiegarne il senso. Se si riesce, quasi subito si è costretti a identificarsi con il protagonista, un Giacomo Leopardi giovanile ma abbastanza diverso da come lo abbiamo immaginato a suo tempo a scuola, sui banchi della nostra classe, che ci ha visti effettuare all’ultimo anno di studi secondari quel percorso di umane lettere che ha sempre costituito per molti versi l’iniziazione alla cultura e al possesso di un DNA tipico della vera italianità. Per capire un po’ quali potessero essere i presupposti per parlare di questo film, e perché questi e non altri, è necessario pertanto mettere a fuoco gli stati d’animo di Giacomo Leopardi con quelli provati da noi spettatori a proposito di molte scene che producono emozioni e commozione a non finire. Si. «Il giovane favoloso» è un film che turba e mette inquietudine ma che è anche consapevolezza del ruolo che Giacomo Leopardi e la sua poesia hanno giocato nella sua e nella nostra vita, soprattutto durante la nostra età giovanile. Il film produce in noi una sequenza drammatica di successioni di stati d’animo, per alcuni aspetti poco piacevoli ma necessari, con colpi di scena e lunghe pause monotone in grado di farci subire gradevolmente il lento dipanare della sua storia per tutto il lungo tempo della proiezione. Un tempo, lo diciamo subito e chiaramente, che è qualcosa di bello e di gradevole da commentare, come se improvvisamente dopo decenni di torpore avessimo avuto tutto d’un tratto riprovato le piacevoli sensazioni che ci hanno accompagnato nel nostro percorso giovanile di studi letterari prima della maturità. La prima cosa che viene in mente dopo aver visto Il Giovane favoloso è il clima familiare che lo circondò da giovane nella Recanati del suo tempo. Anche nel romanzo “I Buddenbrook” di Thomas Mann c’è una simile situazione iniziale. L'idea della vita di una famiglia di ambiente borghese che ricostruisce le modalità della educazione e della formazione di un giovane figlio interessato agli studi letterari come convincente poeta non è nuova. Ciò che è nuovo è invece la maniera nella quale si sviluppò la sua giovinezza. In ogni caso il clima familiare respirato in età giovanile - così come riprodotto da Martone - rappresenta una vera novità, per alcuni aspetti imprevisti, sulla quale non avevamo mai avuto la possibilità di riflettere abbastanza. Al di là del ruolo della mamma bigotta e dell’educazione puritana organizzata dall’ossessivo padre Monaldo, che furono per lui molto rigidi e nello stesso tempo rigorosi, l’ambiente familiare e del borgo recanatese lo segnò per tutta la vita. Produsse in lui moti di ribellione e stati depressivi di forte intensità ed emotività, rodendolo dal di dentro tra l’altalenante atteggiamento di ribellione e quello di ubbidienza, tra la dimensione rivoluzionaria di guerriglia interiore e l’assoggettamento ai volere del padre, tipica dei figli di quel tempo. Volendoci identificare in lui troviamo che in quei tempi la logica della vita era proprio la sottomissione e non certo la protesta o, peggio, la ribellione. Era cioè scontato e ineludibile che le famiglie dabbene del tempo dovessero comportarsi nella identica maniera in cui si comportarono i genitori di Giacomo in quella Recanati piena di parenti tradizionalisti e conservatori fino al più profondo dell’anima. Era pertanto più che logico che una delle famiglie nobili più in vista di Recanati, consapevole del ruolo sociale che doveva svolgere nel borgo e abbastanza ricca da poterselo permettere, producesse quel contesto sociale e familiare in cui dovette navigare perigliosamente il nostro Giacomo, sventuratissimo eroe letterario e fenomeno di cultura italiana in ascesa. La sua, infatti, fu una famiglia in cui il contrasto tra il suo essere figlio e l’essere anche fratello di due ragazzi della sua stessa età lo fecero diventare l’orgoglio e la speranza della famiglia. Mentre fratello e sorella avevano preso la decisione di accettare tout court la prassi educativa imposta loro dai genitori, Giacomo si rifiutò sempre nelle forme dovute di subire la medesima sorte dei suoi fratelli. Tant’è che nonostante l’impegno di tutti a non far emergere comportamenti inadeguati risultò sempre evidente il contrasto tra il suo essere figlio del padre e l’essere figli dello stesso padre dei suoi fratelli. Nel tempo in cui gli uni avevano fatto propria la logica di quel tempo - che li vedeva impegnati quasi esclusivamente a studiare, a scrivere e a commentare senza distrazioni di alcun tipo - Giacomo, viceversa, ebbe in successione moti di ribellione e subito dopo moti di sottomissione, altalenandoli come ho detto prima senza poterli controllare e ingenerando sospetti. Giacomo aveva percepito da un po’ l’immensa ricchezza culturale che bolliva nel suo mondo interiore e in quella prospettiva avvertiva il possesso di un estro e di una sensibilità nei confronti della natura e della realtà circostante che gli facevano sentire con eccitazione la ricchezza del proprio pensiero e della propria fantasia ingabbiata in una situazione familiare ed educativa purtroppo per lui di tipo repressivo. Il risultato fu che la sua vena letteraria, ancorché essere scontata per quei tempi, venne vissuta da lui con affanno e con rabbia perché si sentiva come un canarino in gabbia. Da qui lo spirito di melanconia e di tristezza che lo perseguitarono per tutta la vita. Mai domo protrasse il lungo periodo dell’adolescenza e l’inizio della maturità tra stati e sensazioni di malessere ma anche di gratificazioni.

Ma melanconia e tristezza diventavano ancora più forti di fronte all’incontro-scontro con la figura materna. Quante volte la mamma lo riprese perché incapace di controllare anche i sui bisogni fisiologici. Il tagliare la carne a tavola con la forchetta la rendevano vendicativa e incontrollata nell’ira e nel sarcasmo più anaffettivo che si potesse immaginare. Giacomo visse il suo deficit fisico con rabbia e sensi di colpa perché dovette accettare lo scontro con il suo malessere fisico a cui si accompagnarono forti e ricorrenti crisi nervose. Queste crisi furono certamente il risultato dell’anaffettività e dalla lontananza della madre nei suoi confronti. In questo il padre, possessivo fino all’inverosimile, cercò di supplire, in parte al ruolo materno, ma senza riuscirvi. Com’è noto il periodo storico in cui Giacomo visse (1798-1837) dal punto di vista letterario fu caratterizzato dalla presenza della corrente del romanticismo e della corrente dell’illuminismo. La prima si proponeva la rivalutazione nei confronti del razionalismo del sentimento, della fantasia, della spontaneità e della soggettività con la valorizzazione della religiosità cristiana mentre la seconda praticamente affermava la supremazia del pensiero e della ragione su tutte le vicende. Ovviamente l’illuminismo è una corrente letteraria che non veniva vista di buon grado dalla chiesa cattolica, particolare di non poco conto questo nella Recanati delle Marche che era territorio governato dallo Stato Pontificio. Giacomo rimane affascinato da questa corrente letteraria a tal punto da scrivere molte lettere a Pietro Giordani, ad Antonio Ranieri e ad altri. Viene molto apprezzato dai letterati dell’epoca per questo suo pensiero nuovo e rivoluzionario. Il padre Monaldo intuisce questa esigenza di libertà di Giacomo e cerca di trattenerlo, fino al punto di impedirgli di fuggire da casa, tenendolo sotto continuo controllo divenendo così un grosso scoglio per i suoi progetti. E’ interessante il fatto che a nostro avviso il regista ha lasciato che fosse lo spettatore a intuire questo duello psicologico tra padre e figlio. In verità non ci sono scene forti e cruente all’infuori di quell’unica scena che lo vede accusato prima dal padre e poi dallo zio. Molto intensa è la scena in cui Giacomo con voce sommessa e controllata manifesta il suo pensiero al padre che nel suo intimo, invece, viene urlato, gridato fino a produrre forti contorsioni muscolari. E’ un suo desiderio quello di urlare il suo pensiero al mondo intero, non certo di ribellarsi al padre perché in lui continua ad esistere la logica della sottomissione, scrupolosa e fedele ai genitori. Il regista è stato molto bravo nel rendere evidente questo dissidio, questa battaglia psicologica tra il sentire una emozione e il volerla comunicare dovendola filtrarla sempre alla luce di una educazione rigorosa e rispettosa dei genitori. Altra immagine cinematograficamente forte è quella relativa al padre Monaldo che si traveste da conducente della carrozza sulla quale, e con la quale, Giacomo Leopardi voleva scappare di casa. Un vero e proprio colpo basso del padre che voleva a tutti i costi tenere sotto controllo tutto ciò che riguardasse il figlio. Gli sguardi del padre Monaldo al figlio Giacomo, comunque, sono e rimangono una costante del film. Si potrebbero discutere molte scene del film, in ognuna delle quali si potrebbe scoprire un pezzo della personalità di Leopardi. Per esempio potente è la scena quando Giacomo sta sfogliando un libro di anatomia in cui sono rappresentati le gonadi. Per la prima volta Giacomo si trova davanti a questa rappresentazione grafica del corpo umano e si sente attraversato da una forte eccitazione che non riesce a controllare, perché è come se avesse avuto conferma dei suoi attributi attraverso questa immagine. Tuttavia la natura è più forte, per cui quando lui scappa e va nel prato è perché ha un forte stato di eccitazione, una vera e propria polluzione. Il padre Monaldo svolge nel film la parte del genitore severo che riesce a tenere tutto sotto controllo, in modo capillare ed assillante. Forte è anche un’altra scena che lo riguarda , quando Giacomo non rientra a casa la sera e il suo amico Antonio Ranieri chiede alla sorella : “ma non è ancora rientrato”? La risposta è: “no, lo aspetto da due ore”. Ranieri è preoccupato, perché nutre un sincero e forte affetto di amicizia per lui. Si preoccupa e lo va a individuare nei bassifondi della città del Vesuvio, in una situazione di degrado tipicamente napoletana. Nonostante venisse deriso perché gobbo, in una città che crede quasi solo ad amuleti e portafortuna, tant’è che la signora che serviva il vino agli avventori a un certo punto gli dice : “ehi, dacci i numeri. Dacci i numeri”. E quando inconsapevolmente Giacomo dice alcuni numeri tra i quali il 96 tutti avvertono che lui è un diverso, che non conosce il mondo della superstizione e nella scena prevale l’aspetto del folclore tipico del luogo. Attenzione però a non credere che lui fosse uno sciocco. Leopardi in precedenza aveva definito i napoletani “popolo di canaglie”, canaglie non solo a livello di popolo ma canaglie in quanto eruditi e intellettuali del luogo, con cui aveva avuto dei problemi e molti diverbi. Dunque, viene deriso, ma è talmente forte in lui il piacere di sentirsi ascoltato e di sentirsi addirittura invitato a declamare qualche verso di poesia che si lascia andare compiaciuto e, per la prima volta, beve e sorride. Sorseggia e brinda ripetutamente senza freni, perchè questo è tipico delle persone timide che quando si sentono a proprio agio in un ambiente a loro favorevole che li sostiene e li accoglie manifestano la propria natura. Un aspetto da rimarcare è che lo stesso Leopardi ogni tanto perdeva le staffe, cioè si indignava ma solo quando qualcuno metteva in collegamento la sua visione filosofica come conseguenza del suo stato fisico. L’accusa che gli si muoveva spesso è la seguente: “voi siete così pessimista perché la natura non è stata generosa con voi”. Lui si è sempre ribellato ed ha sempre respinto con veemenza questo accostamento. Leopardi era pessimista non per il suo stato fisico bensì per la visione che aveva della vita così come da lui narrata alla luce del suo pensiero filosofico. A dodici anni aveva imparato l’ebraico e il greco. Il latino lo traduceva all’impronta, su due piedi. Lui è in corrispondenza con i grandi del tempo esclusivamente filologi tedeschi, che avevano compreso il suo valore.
Quando si parla della “questione Leopardi”, di un uomo infelice nella sua Recanati si dice una verità. E’ vero. Va aggiunto però che Recanati si trova nelle Marche in provincia di Macerata e le Marche a quel tempo facevano parte di quel complesso di territori che dipendevano dallo Stato Pontificio. E la vita nel cattolicissimo Stato Pontificio non era propriamente “illuminista” ma, al contrario, terribilmente reazionaria. C’era ed era palpabile la paura dell’illuminismo, una vera e propria paura che le idee rivoluzionarie francesi potessero arrivare nei territori vaticani e contaminare il popolo. La conseguenza fu un mondo in cui il pensiero era rinsecchito.

Lo stesso padre Monaldo era un personaggio severo e tremendo, che andrebbe giudicato in maniera corretta partendo dal presupposto che era a suo modo un uomo erudito e colto. Era un dotto. Vuole che il figlio sia famoso. Pone tanta fiducia nel figlio ma è geloso della sua grandezza letteraria e in definitiva avrebbe voluto essere lui al suo posto. Monaldo è molto colto, scrive addirittura qualche opera ma si accorge che Giacomo è una luce vivissima e un faro di cultura. Vede che potrebbe diventare la gloria per le lettere e lo incoraggia in tutti i modi. Ha la famosa libreria in casa, frutto di raccolte nel giro di anni perché appassionato che mette a disposizione del figlio per realizzare questo sogno.
Ci sono troppi aspetti nel film che sono suscettibili di ulteriori commenti e approfondimenti. In primo luogo c’è, per esempio, la possibilità di recuperare una traccia del film che attraversa le varie fasi della storia. La prima parte del film è infatti incentrata sull’educazione dei figli. La libreria sta al centro della scena. Questa libreria è importante, è ampia e ricca di testi. I precettori, un abate e alcuni religiosi incaricati di educare, sono le figure esterne di casa Leopardi accreditate come studiosi colti a cui veniva data in mano la formazione culturale dei figli. Si tratta di un gigantesco sistema scolastico riservato e personalizzato che veniva realizzato privatamente in casa, con orari, tempi e modalità inclusive totalizzanti. In secondo luogo la figura materna e il suo ruolo che a un certo punto Giacomo identifica con l’immagine di una statua di pietra che si sgretola improvvisamente, frantumandosi in mille pezzi. Psicologicamente interpretiamo il fatto come la conseguenza di una figura familiare assente nella sua vita affettiva. Chissà quante volte Giacomo è stato colto da stati malinconici per la lontananza della figura materna nella sua vita. Forse la sua dirimpettaia Silvia è stata così altamente idealizzata proprio per l’assenza nella sua vita della figura della mamma. In terzo luogo il ruolo dei fratelli nella sua vita. Il fratello della sua stessa età, e la sorella altrettanto, sono importanti perché Giacomo Leopardi rimase molto unito con entrambi, forse di più con la sorella Paolina piuttosto che col fratello Carlo. I fratelli, più o meno passivamente, avevano fatta propria la scelta educativa e culturale imposta loro dal padre Monaldo, arrendendosi a seguire le regole molto tradizionali che prescrivevano un approccio educativo rigido ma sicuro, da seguire fino in fondo. Solo che Giacomo mal si adatta a questa logica. Nell’assecondarlo con discrezione anche loro attraverso Giacomo cercano di esprimere il proprio dissenso da questo stato di cose ma non hanno né la voglia, né la carica del fratello per andare fino in fondo. La figura dei fratelli è importante perché Giacomo “sente” che loro lo capiscono, comprendono il suo anelito alla libertà e più o meno segretamente lo incoraggiano. E poi la figura centrale del padre oppressivo. Vorremmo citare brevemente anche Teresa Fattorini, la giovane Silvia che, diciamo la verità, nell’economia del film passa inosservata se non per un cenno di solidarietà portato direttamente alla famiglia della giovane con la sua presenza nel giorno del lutto. Eppure Teresa, alias Silvia, lo sappiamo è stata terribilmente importante nella vita di Giacomo. Il rimembrare i giorni passati è stato e sarà sempre uno dei momenti lirici più forti della poesia leopardiana. Il film non tralascia di mettere in evidenza i sentimenti sperimentati dal protagonista. Tuttavia, risulta essere un’opera cinematografica che insiste poco sugli aspetti intimi dell’amore utopistico del protagonista. Alcuni di questi aspetti sono valorizzati nella sua poesia per scelta del regista che forse è interessato di più alla dimensione socio-politica della sua vita piuttosto che ai sentimenti poetici. Da questo punto di vista, il film è disorientante proprio perché affronta temi leopardiani estranei alla prassi scolastica come lo possono essere quelli di tipo più propriamente politici, professionali, epistolari col mondo della cultura. Questo film, contrariamente all’immagine che avevamo del poeta da giovani nella nostra memoria scolastica, descrive una figura contraddittoria, dal carattere fragile e nel contempo forte. Anzi, in alcuni casi appare determinato ed ostinato, tanto da non riconoscervi per niente il Giacomo Leopardi descritto dai libri di letteratura italiana. In tal senso, il film ha sorpreso tutti inducendo il pubblico a percepire per ultimo una immagine di Giacomo Leopardi come quelle di un poeta forte che, fino all’estremo, lotta per cambiare “le regole scomode del suo tempo”.

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