domenica 23 marzo 2014

We have a dream: un Matteo Renzi al Campidoglio.


Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi con la sua personalità e con il suo modo sbrigativo di agire ha creato nel paese una grande attesa per le riforme. Con le sue dichiarazioni azzardate e con il suo piglio decisionista sembra abbia fatto breccia nel cuore degli italiani che sentono parlare da sempre di cambiamenti senza mai vederne l’ombra. Se saprà operare da premier come ha operato da sindaco a Firenze potrà veramente diventare il beneamato premier d’Italia. La consapevolezza che ci riesca è palpabile. Chi invece ha fallito è l’attuale sindaco di Roma Ignazio Marino. Il nostro giudizio su questo Signore è negativo. Ma andiamo per ordine. Cominciamo col dire che siamo profondamente delusi da questo Signore che aveva promesso, più del suo predecessore Alemanno, consistenti cambiamenti nel modo di operare della nuova Giunta capitolina. Ha illuso i cittadini romani che finalmente si sarebbe “cambiato registro” e invece, a distanza di un anno dalle elezioni, si è dimostrato un clamoroso fiasco. Lo diciamo perché avevamo creduto alle sue roboanti promesse di cambiamento e di trasformazione della macchina amministrativa romana. Invece, a parte la pedonalizzazione dei Fori Imperiali, non abbiamo visto nulla. La vita dei cittadini romani è rimasta quella di sempre. Ignazio Marino ha finora fallito su tutta la linea. Perché? Crediamo per due ragioni. Il primo perché è stato sopravvalutato. Aveva fatto credere “mari e monti” e invece è di una mediocrità tremenda. In secondo luogo non ha rispettato gli impegni elettorali perché ha praticamente rinunciato a ralizzare il suo programma di Sindaco e si è praticamente impantanato nella melma della piccola politica romana, fatta di beghe da cortile, di personalismi e di ripicche fra quadri arrembanti del Pd che reclamano quote di potere. Che vergogna. I sindaci di Roma praticamente falliscono tutti perché invece di fare i sindaci si mettono a fare i primi ministri, diventano narcisisti, si ritengono indispensabili e dimenticano che il ruolo di sindaco è quello del “buon padre di famiglia” che deve far funzionare la città e non l’intera nazione. Ignazio Marino è diventato più un vanitoso taglia nastri che l’operatore concreto delle “buone cose”, le quali com’è noto se messe insieme, una dopo l’altra in fila, producono il miracolo del buon funzionamento di una città. Noi siamo contrari alle accuse generiche. Vogliamo pertanto giustificare questo nostro giudizio negativo sulla base dei fatti e suggerire cosa avrebbe probabilmente fatto, a nostro parere, un Matteo Renzi sindaco di Roma come promemoria, dal momento in cui il sindaco Marino l'ha perduto e a maggior ragione perchè la "malattia" sta peggiorando insieme al nostro stato d'animo.
Innanzitutto un buon sindaco è un buon amministratore. Questo è il punto di partenza corretto. E un buon amministratore cerca di risolvere i problemi della sua città poco a poco, con continuità e a piccoli passi. Una pubblicità di alcuni decenni fa diceva pressappoco: quello che c'è di bisogno "non è un pennello grande ma un grande pennello". In sintonia ci sentiamo di affermare: "non grandi problemi ma piccole cose" in grado di soddisfare le esigenze dei cittadini. Non grandi progetti e discussioni sterili sui massimi sistemi ma realizzazione di cose ovvie e banali, sinonimi di buona amministrazione. Ecco un campionario di cose che il sindaco avrebbe dovuto fare e che non ha finora fatto e che, a questo punto, è probabile che non farà mai.
1)Avrebbe dovuto impegnarsi a pulire la città e curare il suo decoro con testarda sistematicità e cura. Ogni cittadino tiene pulita la propria casa come una reggia. Perché il Sindaco della capitale non la tiene pulitissima come casa sua?
2)Avrebbe dovuto assicurare trasporti decenti. Nelle capitali d’Europa i sindaci migliorano con continuità, di anno in anno, il trasporto pubblico ai danni di quello privato, colpendo con efficacia i soprusi degli automobilisti delinquenti che inquinano, che rallentano il traffico di autobus e taxi, che posteggiano in modo ormai ossessivo dovunque. Perché il sindaco Marino non lo fa? E poi si legge addirittura di autisti Atac maleducati, che si rivolgono con insolenza e scortesia contro gli utenti. Cose inenarrabili da far vergognare anche gli sfrontati. Sarebbe obbligatorio un corso di educazione civica e di bon ton per tutti i conducenti di mezzi pubblici, tassisti compresi prima di rilasciare loro l’autorizzazione a condurre veicoli.
3)Avrebbe dovuto proporre e far votare delibere per dare disposizioni affinché tutti i quartieri di Roma sarebbero stati sistematicamente monitorati e controllati per migliorare la sicurezza e perseguire i cittadini prepotenti e malavitosi. Invece c’è totale indifferenza per questi problemi. Come mai?
4)Avrebbe dovuto far funzionare a dovere le municipalizzate (Atac,Acea,Ama) che rappresentano, a detta di tutti i cittadini romani, un vero e proprio calvario e scandalo nella loro esistenza. Non si contano le proteste dei cittadini contro questi veri e propri centri di potere e di favoritismo della città.
5)Avrebbe dovuto evitare il degrado spaventoso in cui versano tutti quartieri di Roma che decenni fa erano bellissimi e invidiati da tutti e che invece adesso sono abbandonati all’incuria, al degrado e, peggio, nelle mani della malavita. L’Oscar a Sorrentino per il film La Grande Bellezza è stato possibile perché il bravo regista ha girato le scene romane esclusivamente in piena notte o all'alba.
Non ci credete? Ebbene guardate cosa succede nelle zone centrali di Roma per le strade la sera tardi: barboni che adoperano le entrate dei negozi come “cuccette dormitorio” e come WC; idioti graffitari che imbrattano muri storici con frasi che dire sceme è un complimento e che macchiano intenzionalmente in modo vergognoso persino le palette dei percorsi degli autobus alle fermate dell’Atac (vedi foto); cittadini screanzati che con provocazione e arroganza posteggiano le loro macchine non solo sui marciapiedi ma addirittura davanti ai passaggi pedonali per portatori di handicap impedendo l’accesso alle loro carrozzine; automobilisti che non rispettano il codice della strada e vigili che osservano le infrazioni senza intervenire; strade importanti piene di spazzatura per terra; stupidi padroni di cani che lasciano le deiezioni dei loro cani sui marciapiedi; e tanto altro ancora. Il degrado di Roma è dovuto in grande quantità all'inazione della polizia municipale della capitale. I vigili, una volta solerti, attivi ed efficaci controllori e sanzionatori degli abusi, sono diventati adesso un corpo di individui nel migliore dei casi estranei al buon funzionamento della città; nel peggiore dei casi addirittura conniventi con i modi di fare aetici di molti loro concittadini. Hanno frequentemente permesso alla parte peggiore della società romana di utilizzare prassi incivili fuori dalle regole quasi sempre senza intervenire. E che dire poi del vero e proprio suq che è stato creato in via dei Fori Imperiali che, nonostante la folta presenza dei nostri beneamati vigili, gli stessi fanno finta di non vedere il degrado e lo stupro della zona del Colosseo, tra l’altro nella stessa area dove il sindaco Marino ha con testardaggine realizzato il suo unico provvedimento. Cosa avrebbe dovuto fare il sindaco Marino? Poche cose.
In primo luogo avrebbe dovuto imporre alla polizia municipale di fare i vigili, cioè di vigilare, controllare e fare contravvenzioni. Invece l'intero corpo di polizia locale si considera piuttosto degli osservatori dell’ONU. In modo metaforico hanno più responsabilità i nostri beneamati vigili che i caschi blu olandesi quando con la loro inazione permisero alle milizie serbo-bosniache il genocidio nella nella zona protetta di Srebrenica. Perchè di questo si tratta: i nostri beneamati vigili permettono quotidianamente il "genocidio" del buon funzionamento della cosa pubblica. Per esempio anni fa ci avevano informato che, con la nuova legge che vietava di utilizzare i cellulari durante la guida, i vigili sarebbero stati irremovibili nell'applicare la norma e avrebbero fatto tante multe, con la "certezza" della perdita di punti sulla patente. Avete visto tutti com'è andata a finire: a ridere. Ogni giorno migliaia di privati cittadini guidano nella capitale con il cellulare incollato all'orecchio infischiandosene della norma. Si è trattato di una vera e propria presa in giro che ha rafforzato l'idea che a Roma tutto è possibile e che i codici di comportamento e le regole prescrittive non hanno alcun valore.
In secondo luogo avrebbe dovuto chiedere a Prefettura, Polizia, Carabinieri, Guardie di finanza e Presidenti di tutti i municipi un progetto concreto di pochi interventi mirati per realizzare in sinergia una vigilanza attiva ed efficace nell’interesse dei cittadini utenti tale da scoraggiare atteggiamenti malavitosi e colpire l’inciviltà dei refrattari alle regole.
Avete mai visto cosa viene depositato vicino ai cassonetti dell’immondizia? C’è di tutto, per la felicità dei Rom che trovano addirittura divani, elettrodomestici e mobili vecchi per i loro campi nomadi. Sarebbe stato necessario un approccio differente da tutti gli altri precedenti sindaci per rendere efficiente la macchina amministrativa e i controlli. Controlli che nella città di Roma non esistono. Imbroglioni, piccoli bulli, furbetti del quartierino regnano incontrastati, padroni della città. Un esempio? Circa il 50% delle superfici degli appartamenti dichiarati dai romani per il pagamento della relativa tassa Ama è falso. Le autodichiarazioni sono tutte arrotondate per difetto con una stima dell'ordine del 25%. E’ come dire che un quarto del bilancio dell’Ama viene colpevolmente lasciato nelle tasche degli evasori. E’ troppo chiedere al sindaco di Roma di organizzare una task force di giovani che, a seguito di adeguati corsi di formazione, potrebbero non solo trovare un posto di lavoro e diminuire la piaga della disoccupazione giovanile ma soprattutto rimpinguare le vuote casse del Comune di Roma adeguatamente svuotate negli anni dalle varie Giunte capitoline per tutt’altri motivi, non ultimi quelli per aiutare gli amici? Si chiama “nepotismo” il fenomeno sociale negativo definito dal vocabolario come la “tendenza dei politici a favorire i propri familiari, e specialmente i nipoti, indipendentemente dai loro meriti”. Per queste ragioni il nuovo sindaco avrebbe dovuto creare uno iato con la logica precedente e realizzare il cambiamento. Ma lo sta facendo? A noi sembra di no. Dicono che sta trovando resistenze al cambiamento. Se così fosse Marino avrebbe dovuto indire una conferenza stampa alla settimana per denunciare tutti coloro che non avessero collaborato e non avessero modificato i loro colpevoli comportamenti di non fare l'interesse generale della città e dei cittadini. Ma l’aspetto più inquietante è quello che si riferisce al fatto che ci si sarebbe aspettato dal sindaco di considerare i cittadini di Roma come i suoi veri “datori di lavoro” e i referenti principali verso i quali avrebbe dovuto dare il massimo di se stesso. Ma né lui, né la sua maggioranza sono stati finora in grado di fare questa rivoluzione di "nuova politica" per i cittadini, contro tutti coloro che non amano Roma e che fanno male alla capitale. Perché la sorpresa è questa: i veri cittadini che vogliono bene a Roma sono quelli che esigono interventi per colpire e stroncare i fenomeni di corruzione e di inciviltà. Viceversa, coloro che affermano che ci vuole buonismo e/o permissivismo sono i veri nemici di Roma. Che pena. E per sgombrare il campo da possibili strumentalizzazioni politiche diciamo subito che l'attuale opposizione di centro destra fa pena come e più dell'attuale maggioranza di centrosinistra, perchè è la stessa coalizione che ha governato malissimo la città con il mediocre Alemanno per cinque anni. Caro Sindaco Ignazio cambi o si dimetta. Abbia la dignità di ammettere che finora il suo è stato un insuccesso di proporzioni notevoli. In ogni caso, visto come Ella sta operando, avremmo preferito che al suo posto fosse stato candidato Nicola Zingaretti. Se ci troviamo nello stato pietoso in cui versiamo è anche colpa sua, ma soprattutto del Pd nazionale e del modesto e limitato Bersani che imposero il dirottamento a tutti i costi di Nicola Zingaretti da candidato al Comune di Roma a quello della Regione Lazio. Un pessimo affare per noi cittadini di Roma. Faccia qualcosa. Si sbrighi! Di sinistra o di destra o di centro poco importa, ma faccia qualcosa per Roma. Copi Renzi e concretizzi la sua azione con pochi obiettivi certi e preventivati, con scadenze precise e controllabili come sta facendo l'attuale Premier. Altrimenti sarà ricordato come uno dei tanti mediocri sindaci di Roma.

lunedì 17 marzo 2014

I sondaggi mentono?


Riceviamo e volentieri pubblichiamo il post di Gigliola Ibba. A questo link l'originale. I sondaggi dicono la verità oppure no? Non proprio, ma presentano la realtà in modo diverso. Abbiamo preso ad esempio l’incolpevole istituto TECNE’ (sondaggio del 13 marzo 2014) che si comporta come gli altri, forse meglio. La prima tabella mostra come dovrebbero essere presentati, mentre la seconda invece mostra come sono presentati nella realtà.L’istituto TECNE’ segnala almeno in parte i non schierati pari a un 49,6%. A voi il giudizio.

sabato 15 marzo 2014

Ricordi di un mondo scomparso: 5 novembre 1973


1 – La telefonata

Tutto cominciò molti anni fa. Correva l'anno 1973. Era il 3 novembre di un anonimo sabato autunnale. Mi trovavo nel mio paese in Sicilia sui monti Nebrodi, a 907 m di altitudine, a poche decine di chilometri dalle falde del versante nord dell'Etna.
Fui svegliato di mattina da mia madre perché c'era un signore al telefono che mi voleva parlare. Dall'altro capo del filo c'era il preside Domenico Tarzia dell'Istituto tecnico commerciale statale "De Simoni" di Sondrio che, in modo risoluto e sbrigativo, mi informava se fossi interessato ad accettare una nomina annuale di matematica e fisica nella sua scuola. Se non fossi stato d'accordo avrebbe telefonato immediatamente a un altro insegnante dopo di me in graduatoria per fargli la nomina.
Ancora intontito dal sonno e disorientato a capire cosa stesse realmente succedendo pensai subito a uno scherzo degli amici in relazione al conseguimento della mia laurea in fisica. Mi resi conto che la situazione era delicata. Un'idea improvvisa mi salvò. Chiesi venti minuti di tempo per pensarci e dare la risposta. “Bene” mi disse. “Non un minuto di più” e mi dettò il numero di telefono il cui prefisso iniziava per 0342.
Era stato il mio amico di studi universitari Panassiti, nel mese di agosto dello stesso anno, a suggerirmi di inviare alla scuola del preside Tarzia, dove lui insegnava da qualche anno matematica, la domanda di supplenza annuale di matematica e fisica. Io non ero convinto ma lui insistette e così inviai la raccomandata alla scuola per essere inserito nella graduatoria dei supplenti della classe di concorso A049 - Matematica e Fisica. E adesso ecco le conseguenze di quel mio dubbioso invio della richiesta. In quattro e quattr'otto, pochi minuti dopo ero nell'edicola Cerasa del mio paese, nella piazza principale, a cinquanta metri di distanza da casa, a consultare l'elenco telefonico per la verifica del numero di telefono della scuola sondriese.
Il primo problema fu individuare nello scaffale degli elenchi telefonici la Regione in cui si trovava la città di Sondrio, fino a quel momento per me una città sconosciuta. Non avevo mai sentito parlare di questo capoluogo di provincia. Azzardai l'ipotesi che fosse in Piemonte ma non trovai nulla. Provai a vedere se fosse una provincia lombarda e trovai subito il numero associato alla scuola. Era lo stesso! Dunque, non si trattava di uno scherzo. Presi così la decisione di accettare la nomina. Avevo compreso che era molto importante per il mio futuro non perdere quell’occasione. Si trattava di un anno di lavoro sicuro con relativa sicurezza di conferma. Avevo ventisette anni, decisamente troppi per continuare pigramente ad aspettare un posto di lavoro nella mia provincia siciliana. Per la premura in modo sgarbato non salutai nemmeno l'edicolante e in men che non si dica ritornai a casa.
Presi la cornetta del telefono e durante la composizione del numero chiesi a mia madre che mi stava vicino che cosa mi consigliava, visto che non si trattava di una gita fuori porta ma di allontanarmi da casa di circa 1600 chilometri per un anno. "Figlio mio", mi rispose, "io al tuo posto accetterei. Si tratta del tuo futuro". Rispose come speravo. Con ansia composi il numero. Mi rispose lo stesso Preside dicendomi poche parole: "si presenti dopo domani mattina, lunedì 5 novembre, un quarto alle otto a scuola e chieda del vicepreside. Le darà tutte le delucidazioni del caso. Buongiorno". Sentii il clic di chiusura della telefonata.
Pensai subito che la mia vita stesse per avere una svolta improvvisa e imprevista. E poi quel “un quarto alle otto” mi colpì per la inusuale maniera nel meridione d’Italia di individuare le “otto meno un quarto”. Capii che stavo per andare incontro a grandi sorprese e robuste novità dal punto di vista non solo linguistico ma soprattutto del vissuto quotidiano, cioè della concezione del vivere la vita in quella periferica provincia lombarda che mi ricordava il teatro della Prima guerra mondiale.
Ero ancora frastornato per la velocità con la quale gli eventi si erano succeduti in pochissimo tempo. Tra l’altro non avevo mai ipotizzato che mi potesse accadere un’offerta di lavoro così inaspettata, allettante e benvenuta allo stesso tempo, come quella di insegnare in una scuola secondaria superiore statale la mia disciplina. Ricordo bene quei momenti di eccitazione. Mia madre accanto a me era soddisfatta e sorrideva. Grande gioia, forse euforia, sicuramente soddisfazione alla notizia dell’incarico del mio primo lavoro che mi avrebbe assicurato autonomia economica e di vita. Aveva capito che era giunto il momento che suo figlio avesse il cosiddetto “posto fisso”, cioè un posto di lavoro statale, sicuro e prestigioso. Probabilmente pensò anche che quella nomina, che mi costringeva ad andare a lavorare lontano a migliaia di chilometri di distanza, stesse creando anche la condizione di un mio allontanamento da casa in maniera irreversibile.
Al momento del distacco però mi accorsi che la luce dei suoi occhi non era più la stessa di prima perchè forse in quei pochi momenti comprese effettivamente che doveva accettare il distacco dalla mia presenza fisica a casa. Uno sguardo da madre che comprende che è arrivato il momento di essere consapevole che il proprio compito principale si stava concludendo. Difficilmente sarebbe stato possibile ritornare a vivere nella vecchia casa nella piazza principale del paese tranne che per una breve vacanza. Ma intanto la notizia era di quelle da salutare come fortunata e gioiosa e come tale goderla per intero e con pienezza.

2 – Il viaggio

Avevo 27 anni. Fu l'occasione della mia vita. “Occasione unica e tanto desiderata” mi dissi. Era necessario prepararsi a dovere per non perdere a mezzogiorno l'unico autobus possibile per Barcellona P.G, da dove avrei preso un treno proveniente da Palermo per Milano.
Barcellona P.G. era il capolinea della “corriera dell’ora di pranzo”, così veniva chiamato il mezzo di locomozione pubblico dell’azienda siciliana regionale Ast che permetteva di raggiungere la marina, cioè il litorale tirrenico della provincia di Messina. C'era poco tempo per agire. Una valigia innanzitutto. Mia madre mi aiutò ad inserire della biancheria intima, due pantaloni invernali, tre camicie, due cravatte, una giacca, gli oggetti per la barba, un libro di algebra e un pacchetto di biscotti. Mi sarebbero serviti per vivere fino alle vacanze di Natale che durano dal 23 dicembre alla vigilia dell’Epifania. Il tempo di sbarbarmi con la lametta Gillette e mangiare al volo qualcosina di improvvisato, un abbraccio affettuoso ai miei genitori con mia madre che mi diede cento mila lire, e via a prendere la corriera nella stazioncina degli autobus del paese.
Quante volte avevo visto nella mia vita quel mezzo di trasporto a quell’ora fermo ad aspettare i viaggiatori sotto la pensilina della stazioncina. Lo guardavo con distacco come qualcosa di estraneo che non aveva alcun interesse per me. L’altra corriera invece, quella delle cinque del mattino, era il mezzo abituale che normalmente prendevo per andare a Messina, a novanta chilometri di distanza da casa, dove studiavo. Ogni volta che partivo ero distrutto dalla levataccia che ero costretto a fare. Mio padre mi svegliava mezzora prima della partenza delicatamente, come il Giovin Signore del Parini, e mi faceva trovare la colazione pronta. Adesso invece la prospettiva di permettermi di raggiungere la stazione ferroviaria con questo scalcinato e vetusto mezzo di locomozione me lo faceva apparire come un irrinunciabile, importante e caro amico non frequentato nel tempo.
Una volta sull’autobus mi sovvenne l’idea che è stato un miracolo che durante la rasatura della barba di questa mattina non mi sia tagliato il viso per l’emozione, come mi successe tanti anni fa agli esami di Stato dell’anno scolastico 1964-65 a Messina, nella pensione dove abitavo in via Maddalena, la mattina della prima prova scritta di italiano agli esami di maturità.
Il fatto era che mi sentivo non solo eccitato ma anche turbato da un programma di vita imprevisto e imprevedibile. Tra un sobbalzo e l’altro dell’autobus sulla strada provinciale di montagna piena di buche e di curve strette ancora non avevo capito bene quali implicazioni e quali conseguenze avrebbero avuto sulla mia vita questa nomina. Tuttavia, percepivo che questa era una occasione importante da sfruttare per crearmi un futuro e delle prospettive di vita certe e soddisfacenti: non potevo assolutamente perdere questa possibilità. La nomina era annuale, non settimanale con sicure prospettive di riconferma.
Adesso che sto scrivendo questi ricordi tutto mi sembra sorprendentemente semplice, lineare, conseguenziale. A quei tempi invece di lineare non c'era nulla. Perdurava in me da una parte l’angoscia dovuta alla mancanza di posti di lavoro nel mio territorio e dall'altra la speranza quasi sempre vana di ottenerlo. Null'altro. E poi tutti quei soldi che mia madre mi aveva dato mi fecero arrossire dalla vergogna perchè li toglievo alla mia famiglia. Centomila lire nel 1973 costituivano quasi mezzo stipendio del mio prossimo lavoro di professore in una scuola media superiore. Erano molti. Tanti. Ma in quel momento non mi dovevo distrarre. Avrei avuto tanto tempo per pensarci.
Nel frattempo, c'era il viaggio da affrontare. Arrivare a Sondrio da un paesino di montagna dell’entroterra siciliano non era uno scherzo. Tuttavia, la numerosa filmografia sugli emigranti che andavano a Milano dal profondo Sud a lavorare senza un soldo in tasca e con una valigia di cartone chiusa con una cinghia legata all’esterno, sebbene così proposta in chiave sentimentale, mi rassicurava. Se l’hanno fatto loro in condizioni disagevoli avrei potuto farlo anch’io con le comodità di oggi.
Sapevo che avrei dovuto scendere alla stazione ferroviaria di Milano Centrale domani mattina, per cambiare treno. Purtroppo, non avevo confidenza con i lunghi viaggi. Finora non ero mai andato fuori dalla Sicilia tranne per fare una visitina fugace di una mattinata sull’altra sponda dello Stretto di Messina a Reggio Calabria. In effetti a Reggio Calabria sono andato altre due volte per vedere la partita di calcio della nazionale italiana Under 20 contro la Polonia e l’altra per un’azione infantile e irrazionale da studente universitario con gli amici. Eravamo a Catania provenienti da Randazzo con la Circumetnea per un esame universitario di un collega della facoltà di Giurisprudenza. Con l’esame superato brillantemente ci invitò a ritornare al paese prendendo l’aereo da Catania per Reggio Calabria per provare l’emozione del volo e rientrare a casa da un percorso alternativo. Una follia giovanile. Ci costò di più e ritornammo tardi. Ma l’esperienza del primo volo fu magnifica. Vedere il vulcano Etna da chilometri di altezza fu un’esperienza indimenticabile.
Dovevo arrivare dunque a Milano in quell’occasione come semplice luogo di scambio del treno per raggiungere la sede di Sondrio. Seguivo sull'unico quotidiano della provincia del mio paese le informazioni sul capoluogo lombardo, con interesse e attenzione. Che Milano fosse la città mito dei miei sogni non lo nego. Nel mondo della scienza era lei la vera capitale d’Italia. Città dinamica e ricca di proposte culturali scientifiche ed editoriali. Ma non divaghiamo.
La vecchia corriera nel quale mi trovavo nel frattempo si muoveva lentamente nel percorso sinuoso tra le montagne verso la stazione ferroviaria distante quaranta chilometri dalla mia abitazione. Il conducente ruotava con perizia e bravura lo sterzo nell’affrontare i tornanti, pericolose curve a gomito a strapiombo che permettevano di compiere la discesa di più di novecento metri fino al livello del mare. Era la prima volta che prendevo quell'autobus dal mio paese. E il fatto che lo prendessi non per andare a fare lo studente ma il professore mi rendeva fiero e orgoglioso dell’impresa. Avevo insegnato alcune settimane nella scuola media del mio paese come supplente. Ma era stata una esperienza breve e poco significativa. Questa volta stavo viaggiando per andare in una scuola media superiore sebbene lontana ma come insegnante per un intero anno scolastico con la prospettiva di rimanerci per molto tempo. Non era un cambio da poco. Si trattava secondo me di una rivoluzione epocale che cambiava completamente le mie abitudini e la mia vita. Una punta di orgoglio mi avvolse facendomi dimenticare in un solo colpo le spiacevoli sensazioni negative provate in anni di frequentazioni di autobus presi all’alba che partivano dal mio paese. Quante volte ho immaginato pessimisticamente il mio futuro senza la possibilità di un lavoro. E adesso improvvisamente tutto era cambiato in maniera significativa. Assaporavo il piacere del cambiamento di prospettiva: non più studente ma professore. E adesso ero in viaggio per realizzare questa aspirazione.
Dovevo prendere il treno Palermo-Milano. Credevo che si fermasse a Barcellona P. G. Ma arrivato a questa stazione mi sentii gelare nell'apprendere che l'unica fermata prevista era a Milazzo. Dunque, era necessario prendere un altro autobus per raggiungere la nuova stazione ferroviaria a una decina di chilometri di distanza. L'ansia di non riuscire a rispettare i tempi di trasferimento si impadronì di me, sebbene fossi in anticipo. Guardavo l'orologio con impazienza. Fortunatamente il piazzale dove stazionavano gli autobus era vicino.
L’autobus per Milazzo aspettava i viaggiatori. Era un autobus più grande e più nuovo di quello precedente. Salii e guardai i volti dei passeggeri. Visi anonimi mai visti prima mi facevano da panorama intorno a me. Niente a che vedere con il viaggio precedente. Lì i visi erano per lo più conosciuti e il dialetto con il quale si esprimevano era lo stesso del mio. Qui le voci erano differenti perché il loro modo di parlare trasformava alle mie orecchie le consuetudini sonore in suoni distanti, lontani. Per capirlo basta il solo pronome personale «io» che dalle mie parti si pronunciava «ieu» mentre adesso sentivo degli antipatici «iò». Il paesaggio, la strada, il profilo delle montagne e il loro colore nel precedente viaggio erano da me ben conosciuti nonostante che all’avvicinarsi al mar Tirreno sfumassero lentamente dal verde al grigio. Qui invece la strada era quasi tutta rettilinea, in una campagna piatta e monotona tra filari di alberi e di flora mediterranea. Nonostante tutto però i pensieri mi inducevano a pensare positivo, anche se vedevo la prospettiva ancora lontana. Quante volte avevo percorso quel viaggio dal mio paese alla piccola stazioncina ferroviaria di Novara-Montalbano-Furnari e poi con un “treno accelerato” per Messina con pensieri drammaticamente differenti da quelli che provavo oggi in questi momenti.
L'autobus imboccò la statale 113 e si mise a correre verso Milazzo velocemente. Arrivai in stazione. All’addetto allo sportello chiesi ancora ansante per la corsa un biglietto ferroviario di seconda classe per Sondrio. Mi guardò sorpreso dalla mia insolita richiesta. Non credo che avesse mai sentito prima il nome della città lombarda come destinazione di un viaggio ferroviario in partenza da questa stazione ferroviaria. In verità anch'io ero perplesso. In vita mia era la prima volta che sentivo il nome di questa città tanto che avevo creduto inizialmente che si trovasse in Piemonte. Pago il biglietto novemila lire e dopo dieci minuti salgo sul treno e trovo posto a sedere in uno scompartimento di seconda classe. Che strana sensazione partire da una stazione ferroviaria mai prima frequentata. Ma più strano ancora è il fatto che l’orario ferroviario prevede l’arrivo a Milano centrale alle 9.20 di domani, domenica 4 novembre 1973, dove dovrò prendere una coincidenza per Sondrio.
Il treno parte ed io prendo atto che non ho comprato niente da mangiare e da bere. Ho dei biscotti in valigia ma non potranno bastarmi. Pazienza comprerò qualcosa nel bar del traghetto che da Messina mi porterà a Villa San Giovanni in Calabria. Di solito dopo l’imbarco e durante la traversata dello Stretto è permesso ai viaggiatori scendere dal treno e salire sul ponte della nave traghetto e frequentare il bar per poi rientrare nello scompartimento del treno prima dell’attracco al porto.
I miei compagni di viaggio hanno lasciato un solo posto vuoto. Lo occupo salutando tutti. Ero curioso di vedere il panorama ma i due posti vicini al finestrino erano occupati da un contadino e sua moglie. Avevano ai loro piedi un cesto di roba da mangiare coperta da una tovaglia a quadretti bianchi e rossi. C’era pure un signore napoletano e due altri passeggeri dal volto anonimo. Mi ritrovai così nel posto vicino alla porta scorrevole d’ingresso. Trascorrevano le ore ed io ascoltavo ciò che dicevano. Non avevo mai fatto in vita mia un viaggio così lungo. Dunque, era necessario avere pazienza.
Appena divenne buio il contadino tirò fuori dal cesto un fiasco di vino rosso e del pane. Ne tagliò alcune fette e le condivise con la moglie con pezzetti di formaggio, non prima di aver fatto cenno a tutti noi se ne avessimo voluto assaggiare un po’. Fu l’occasione per veder anche gli altri offrire un po’ del loro “pane e companatico”. Si creò nello scompartimento una specie di corrente di simpatia e qualcuno cominciò a raccontare fatti ed eventi della propria vita. Per più di due ore ascoltai i loro discorsi. Mi colpì il signore campano che raccontò un fatto accaduto nella sua vita quando era ragazzo. Raccontò di suo padre ormai anziano e ammalato che non poteva più uscire di casa perchè bloccato a letto dalla sua malattia. La moglie lo controllava e gli vietava di fumare le sigarette. Un giorno che la moglie era fuori casa chiamò il figlio e gli chiese il favore di acquistargli una sigaretta nazionale al tabacchino di nascosto dalla moglie. Lui preoccupato dei sicuri rimproveri della madre rifiutò. Nella notte suo padre morì. Con gli occhi lucidi ci disse che da quel momento in poi non fu più in grado di controllare le emozioni del ricordo del padre e fatto più penoso si sentì sempre un senso di colpa ineliminabile. Non avvertivo stanchezza. Piuttosto l'unica preoccupazione, se vogliamo chiamarla così, era la consapevolezza di non avere a disposizione le comodità del viaggio. Nella fretta non avevo portato fazzoletti e non avevo a portata di mano un pettine. Ero riuscito sul traghetto ad acquistare un panino imbottito, un Buondì Motta e un pacchetto di caramelle. Non ero preoccupato, semmai mi sentivo un po’ teso per la novità di un viaggio lungo e considerevolmente differente dagli altri che avevo fatto prima. L'unica preoccupazione se si vuole era il non poter dormire sdraiati. Non era stato possibile prenotare una cuccetta. Tutto il processo decisionale che precedette il viaggio si era svolto così rapidamente che anche se avessi voluto non avrei potuto effettuare alcuna prenotazione. Non solo non ci avevo pensato ma non avevo neanche l'abitudine di farlo, perchè la mia esperienza di lunghi viaggi era pressoché nulla. Più trascorreva il tempo e più prendevo coscienza che avevo a disposizione solo un posto a sedere, peraltro di legno, non con posti singoli e braccioli individuali ma come una panca senza soluzione di continuità tra i passeggeri. Vi era una grandissima differenza nel viaggiare in prima o seconda classe ed io avevo viaggiato sempre nella classe più economica. Soffrivo per non potermi sdraiare ma vivevo quei momenti di attesa proiettati in un futuro pieno di promesse e di soddisfazioni.
Ogni tanto mi alzavo dal posto e uscivo nel corridoio per sgranchirmi le gambe. E a sera inoltrata vedevo davanti a me un panorama spesso di campagna ma a tratti vicino a qualche paese, con alcune case e poche stanze illuminate.
A tarda sera in un dormiveglia discontinuo avvertivo che il treno ogni tanto si fermava in una stazione ferroviaria. In quel momento sentivo vociare il personale ferroviario anche con annunci al microfono ma non capivo bene cosa dicessero. L'unico suono certo era il suono del fischietto del capotreno che dava ordine di ripartire. Poi più niente. Solo il rumore delle ruote metalliche su binari. Non avevo capito se l'ultima fermata fosse stata Napoli o Roma. A dire la verità non mi importava molto dove mi trovassi. Milano era ancora lontanissima. Era necessario aspettare la mattina. Col buio poi non si riusciva a vedeva quasi nulla fuori. Le luci nello scompartimento erano state abbassate. Decisi di andare nel corridoio e trascorrere un po' di tempo da solo con i miei pensieri.
I viaggiatori erano quasi tutti addormentati. Nel corridoio vidi dei sedili ribaltabili. Mi sedetti su uno di questi. Davanti a me c'era un finestrino. Sentivo il rumore del treno sulle rotaie con il classico rumore del tran-tran del treno. Ogni tanto avvertivo il fischio di un altro treno che proveniva in senso contrario. Lo sfrecciare dei due treni mi eccitava per la rarità dell'evento. Sensazioni forti per me che ero abituato a viaggiare su treni locali, chiamati accelerati, che viaggiavano lentissimi su un solo binario da Palermo a Messina e trasportavano lavoratori. Qui le velocità erano decisamente più elevate. Attraverso il finestrino vedevo la campagna buia in piena oscurità. Non c’era altro da vedere. Nel rapido farsi notte mi sorprendo a vedere ogni tanto delle piccole luci di gruppi di case. In qualcuna di queste c'era anche qualche stanza ancora illuminata. Mi è sempre piaciuto fantasticare sulla vita delle persone svolta dietro le finestre illuminate della sera. Immaginavo qualche componente della famiglia ancora sveglio che probabilmente si preparava ad andare a dormire. Poi di nuovo buio. Il treno corre nella notte e trasporta insieme a me i miei pensieri, i miei sogni, le mie fantasie, i miei ricordi di viaggiatore che va incontro alla vita. Quanti pensieri mi passarono davanti agli occhi in quei momenti. Pensavo a me che stavo trasferendomi lontano da casa a migliaia di chilometri di distanza in una città sconosciuta. Chissà cosa pensavano in quel momento i miei genitori e mio fratello. Un forte senso di malinconia mi prese facendomi commuovere. Non era sconforto. Era tristezza dovuta alla grande avventura della vita che in pochissimo tempo mi cambiava la prospettiva di vita. Penso proprio che si trattasse di consapevolezza del cambiamento. Il viaggio mi cambiava paradigma di vita e tagliava i ponti col passato, manifestandomi la diversità esistente tra il prima e il dopo dell’oggi. Forse ero felice e non lo capivo. Immaginavo il cambiamento rivoluzionario della mia vita futura. Andare a lavorare e guadagnare uno stipendio consistente sarebbe stato per me la cosa più bella del mondo ed io ero il protagonista in prima persona di questo successo. Mi sentivo forte. Pensavo che sarebbe giunto finalmente per me il momento di realizzare i miei sogni. Insegnare ad altri le idee e i fatti scientifici della scienza che avevo studiato all'Università, essere finalmente protagonista della mia vita, donarmi agli altri e sentirmi utile alla società mi sembravano la cosa più bella che mi potesse accadere. Non avevo più sonno. I pensieri volavano con una facilità sorprendente. Era la prima volta che mettevo a fuoco il mio futuro in modo chiaro e concreto, delineando un progetto di vita che mi appariva emozionante e significativo. Come quando mi iscrissi al primo anno di università. Emozioni forti caratterizzavano quei minuti che stavo trascorrendo solo nella penombra di una fioca luce del corridoio del treno che viaggiava di notte. Avevo sempre trascurato questi pensieri. Improvvisamente percepii che sentivo un po’ di freddo. Decisi di rientrare nello scompartimento e tentare di appisolarmi. Fu una notte lunga, fastidiosa e scomoda perchè dormire in quelle condizioni non era facile: la mancanza di un letto si faceva sentire. Ricordo le comodità di casa: in inverno quando il freddo era intenso mia madre mi riscaldava il letto con il braciere posto sulle lenzuola e un girello di sopra per appoggiare le coperte. Cara dolce mamma cosa non hai fatto per me per proteggermi.
La mattina il clima diventò ancora più freddo e la gente era in fermento perché stavamo entrando nella stazione ferroviaria di Milano Centrale. Dal finestrino vidi i tre enormi padiglioni della stazione milanese e poco dopo il treno sferragliando si fermò. Scesi e notai che il freddo era pungente. Vidi l’enorme tabellone degli orari che indicava un treno in partenza per Sondrio in un altro binario il più lontano di tutti. Avevo pochi minuti per prenderlo. Non ebbi il tempo di comprare nulla, ché dovetti salire subito sul treno. Mai visto prima un treno pulito come quello. Sembrava più un vagone di prima classe che il solito treno regionale siciliano che operava sulla tratta Palermo Messina. C’era molta gente e dovetti percorrere più vagoni prima di trovare un posto. Ne trovai uno vicino al finestrino. Adagiai la valigia sul piano porta valigie e mi misi ad osservare la gente. I visi erano tutto sommato non molto differenti da quelli siciliani. Certo c’era qualche passeggero dai capelli biondi e di pelle più chiara ma niente di molto differente. Lo stesso valeva per l’abbigliamento. Piccole differenze. Invece la più grande diversità era il modo di parlare e il tono della voce. Molta più proprietà di linguaggio, sintassi del periodo corretta, lessico ricco e più appropriato e fortissima differenza nella intonazione, con una inflessione settentrionale molto marcata. Ero incuriosito da questo modo di parlare e rimasi in attento ascolto per un bel po’ di tempo. Osservavo il bigliettaio che chiedeva di verificare i biglietti. Rimanevo piacevolmente sorpreso dal fatto che tutti ringraziano riprendendo il biglietto. In Sicilia non ho mai sentito ringraziare nessuno in simili circostanze. In effetti era un modo di relazionarsi decisamente più fine ed educato. Presi nota.
Il treno si muoveva molto velocemente per gli standard siciliani. Il paesaggio era decisamente uniforme e pianeggiante. Da Lecco in poi cominciarono le sorprese. La più interessante fu “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, …”. Un panorama mozzafiato con il Resegone in prima posizione. E poi il lago. Lo trovai bellissimo vedendolo da vicino in prima persona. Manzoni fu perfetto nel destare l’emozione dell’incipit del romanzo I promessi sposi. Ero incollato al finestrino ad osservare. Volevo memorizzare tutto. Varenna, Bellano, Colico tutti luoghi molto belli e sorprendenti. Stazioncine eleganti e raffinate, parlate sempre più piacevoli sul piano della gradevolezza delle voci e della parlata. Intonazioni ed espressioni colorite da una cadenza quasi poetica delle parole. Insomma, tutto un calendario di promesse di un piacevole soggiorno. Nulla a che vedere con i toni e i dialetti meridionali.
Dopo Colico il treno si spopola e scopro con sorpresa di essere l’unico passeggero del vagone. Abbasso il finestrino e vengo investito da un’aria freddissima. Solo allora prendo atto che il clima è decisamente alpino e fa molto freddo. Il mio cappotto non è l’ideale per quelle temperature. Ma scaccio la sensazione del freddo per immaginare cosa dovrò fare all’arrivo quando scenderò dal treno. Vedo la valle con i piccoli paesini alla base della catena montuosa senza soluzione di continuità e mi immagino il tipo di vita che vi si svolge. L’alimentazione a base di polenta reiterata nella filmografia nazionale mi fa ricordare l’economia zootecnica del territorio. Mi sorprendo però ad osservare che ci sono delle zone in cui si coltiva la vite. “Viticoltura a queste temperature” mi chiesi? Mai visto nulla di simile. Vigne sulle pendici dei monti che vino poteva essere prodotto? Pensai a una stranezza non sapendo che secoli fa Leonardo da Vinci definì la Valtellina come la “valle circumdata d’alti terribili monti. Fa vini potentissimi e assai e fa tanto bestiame che da paesani è concluso nascervi più latte che vino”. C’era un magnifico sole e l’aria dopo aver di nuovo abbassato il finestrino era fresca e pungente. Un annuncio all’altoparlante mi informava che eravamo in arrivo a Sondrio e che la fermata successiva era Tirano. “Che strano” mi dissi, “Sondrio non è capolinea”. Devo fare attenzione a scendere alla fermata giusta. Cosa avrà di interessante Tirano non lo potevo comprendere perché non vi ero mai stato.

3 – L’arrivo

A mezzogiorno e qualche minuto arrivai a destinazione. Il viaggio era durato esattamente ventiquattro ore, un intero giorno. Scesi dal treno e uscii sul piazzale della stazione. Non ero stanco ma intontito dalla sequenza di novità che i miei occhi vedevano. Un paesaggio straordinario. Uno scenario di montagne altissime da entrambe le parti dell'intera valle appariva come se volesse informare i passeggeri che il luogo fosse importante e meraviglioso. Mai visto nulla di simile in vita mia. Rimasi di stucco nel vedere l’intera piazza e le case che su di essa si affacciavano inserite nel contesto del panorama impressionante. Intanto i colori. Niente tetti con tegole rosse ma grigi a lastre di pietra ollare. Niente facciate color marrone ma grigie anch’esse. Stesso color grigio per le strade in pietra, con blocchetti di pietre quadrate perfettamente ordinate nella carreggiata. Poi lo sfondo sul quale si vedeva un profilo di montagne da brivido, mai viste prima in vita mia. Nonostante io fossi nato e vissuto in un paese di “alta montagna” ad una elevata altezza sul livello del mare e la mia fosse una cultura di montagna, qui tutto mi sembrò esageratamente più ingrandito e stilizzato di qualsiasi immagine preesistente nella mia mente. Tutto era dilatato: la curva delle montagne, i rilievi della valle, il forte profilo a punta delle montagne con vette altissime. Davanti a me le Alpi retiche, alle mie spalle le Alpi orobie. Dal lato frontale dei monti la Svizzera e dal lato opposto Bergamo e Brescia. Parole lette e sentite alla scuola elementare nelle lezioni di geografia. Al loro confronto i Nebrodi, la catena montuosa dove si trovava il mio paese, mi apparivano piccole colline.
Avevo fame ed era necessario trovare entro breve tempo prima un albergo e poi un ristorante. C’era poca gente nel piazzale così decisi di ritornare in stazione e chiedere qualche informazione all’addetto allo sportello dei biglietti. L’impiegato mi suggerì il più vicino: “subito dopo il piazzale di fronte, sulla sinistra, nella strada dell’Ufficio postale c’è un piccolo albergo e ristorante” mi disse. Ringraziai e con un po’ di ansia mi incamminai con la valigia in una mano verso l’albergo. In effetti non era lontano. Si trovava in via Vittorio Veneto subito dopo l’Ufficio Postale di Poste italiane e si chiamava Albergo Garibaldi.
Salii i pochi scalini che erano davanti a me ed entrai nell’ingresso. Al banco della ricezione chiesi se avessero una camera e quanto costasse. L’ambiente mi ricordava quello di un piccolo albergo austriaco, austero, dai colori scuri. Mi ricordava anche l’ambiente della locanda in cui arrivò K. nel romanzo Il castello di Franz Kafka. Intravvidi la saletta ristorante in un angolo, anch’essa piccola, in stile semplice con una cameriera che indossava una gonna nera, delle scarpe nere col tacco e calzini e camicetta bianchi in perfetto stile asburgico. Novità assoluta per me. L’addetto alla ricezione mi chiese quanti giorni dovessi rimanere. La domanda ancorché semplice mi sembrò imbarazzante. Dovevo ponderare la risposta. “Forse se dico molti giorni” pensai mi tratterà con riguardo. “Già, ma quanti giorni” mi chiesi. Non lo sapevo neanche io. Feci un rapido calcolo e risposi con cautela una settimana almeno. Comunque la informerò meglio domani.
Magicamente tutto sembrò andare per il verso giusto. Mi diede una camera al primo piano che dava sul retro, silenziosa come desideravo io, ma piccola e fredda. Mi spogliai e feci una doccia o perlomeno tentai di fare una doccia. Faceva freddo e l’acqua non era abbastanza calda. Tuttavia, ne avevo bisogno. Mi rivestii e scesi nella saletta ristorante. C’erano pochi clienti che avevano quasi finito di mangiare ed io avevo fame. Non mangiavo da un giorno intero. Ordinai fettuccine al ragù e bollito misto con verdura saltata in padella e un quarto di vino rosso.
Adesso che sono qui, davanti a un piatto fumante di fettuccine con la camera già prenotata, mi sento molto meglio di prima e colmo di aspettative. Non capita tutti i giorni un'esperienza di vita come la mia. Forse viene una sola volta nella vita. Catapultato improvvisamente in un'avventura straordinaria a mille e seicento chilometri di distanza da casa mia, improvvisamente, non è facile raccapezzarsi. Il cibo era caldo e gustoso. Alcuni calici di vino rossi aggiunsero una sensazione di leggerezza che non era cosa da poco. Mi sentii meglio, forse euforico. La cameriera mi suggerì alla fine di assaggiare del buon formaggio di montagna. Nessun richiamo alla frutta. “In pratica” mi dissi “qui si sostituisce la frutta con il formaggio”. Non ero abituato. Poi pensai di aver fatto bene a chiedere in stazione di darmi indicazioni per un albergo. Mi hanno suggerito bene. Ringraziai nella mia mente l’impiegato alla biglietteria.
Alla fine del pranzo decisi di uscire e fare una passeggiata. Avevo in mente di vedere il percorso per arrivare domani mattina a scuola. Alla mia domanda l'addetto al banco mi rassicurò che la scuola era vicina. Si trattava di percorrere cinquanta metri circa in Piazzale Bertacchi, svoltare a destra in via Mazzini e camminare diritto per altri cento metri. Sulla destra c’è la scuola mi disse. Mi avvio. Il primo pezzo di strada è lo stesso di quello che ho percorso per arrivare all'albergo. Infatti, vedo in fondo al piazzale l’edificio della stazione ferroviaria. La strada è pulita e ovunque domina il grigio della pietra ollare. Tutto è fatto di pietra. Strada, piazza, marciapiedi, alcuni muri e, lo ripeto perché lo avevo notato prima, anche i tetti. Non avevo mai visto una architettura così ricca di pietra e ben equilibrata. Nonostante la differenza enorme con quella siciliana tutto sembrava gradevole e a misura d’uomo. Dava un senso di severità e di rigore alla città.
Vedo l’entrata maestosa dell’Istituto Tecnico Commerciale “De Simoni”. Di fronte c’è un bar. “Bene a sapersi” sussurrai. Potrò così orientarmi subito quando domani mattina verrò qui.
Le prime impressioni che provai nel vedere le prime strade e i primi palazzi della città furono senz’altro positive. Anzi. Pensai subito che lo stile austero della città e l’architettura di alcuni palazzi sebbene non in buone condizioni estetiche mi fecero l’impressione di trovarmi in una cittadina austriaca o tedesca e le sensazioni provate in quelle poche ore dal mio arrivo mi fecero capire che non era corretto effettuare confronti con le città siciliane perché erano profondamente differenti. Dunque, compresi subito che avrei dovuto effettuare qualche cambiamento del mio modo di vivere in città. Ma quello non era il momento di pensarci.
Improvvisamente la stanchezza si fece sentire in modo ineludibile. I muscoli, in particolare quelli delle gambe si erano sciolti e mi facevano un po’ male. Mi sentivo affaticato come alla fine di una lunga corsa. Non dormivo da più di 24 ore e decisi di rientrare subito in albergo perché temevo di cadere per terra.
Rientro in albergo e vado subito in camera. Ero determinato a riposare qualche ora. Pochi minuti dopo sono nel letto con il pigiama. La stanza è fredda. Il tempo di ambientarmi sotto le coperte pesanti ma piacevoli e il pensiero che oggi è stata una giornata faticosa che subito caddi in un sonno profondo. Faccio brutti sogni. Era inevitabile. Anzi ho degli incubi. Nel sogno mi sembra che tutto sia irrimediabilmente perduto. Qualcuno mi ferma e cerca di trattenermi, riuscendovi, per non farmi arrivare in orario in un posto sconosciuto che io identificai essere una scuola. Dovevo fuggire ma qualcosa o qualcuno mi tratteneva e mi impediva di liberarmi. Più tentavo di fuggire e più mi rendevo conto che venivano messi in atto sistemi di bloccaggio sempre più efficaci. Non riuscivo a divincolarmi. Insomma, quando sto per essere bloccato definitivamente e non poter essere a scuola in orario mi sveglio sudato. Ho fatto un incubo agghiacciante. Mi paragonai a Gregor Samsa, il commesso viaggiatore del racconto La metamorfosi sempre di Franz Kafka in cui il suo pensiero non era rivolto al suo aspetto mostruoso ma al ragguardevole ritardo che stava accumulando per il suo lavoro. Mi rincuoro parecchio nel constatare che ciò che avevo subito fosse stata solo un’illusione. Fuori è già buio. Decido di rimanere in camera e di non uscire.
Devo concentrarmi per preparare la lezione di matematica che farò domani mattina. Per la fisica non ci sono problemi: qualunque argomento abbiano svolto gli studenti fino a quel momento svilupperò una lezione di sintesi delle nozioni svolte dalla precedente insegnante. L’obiettivo sarebbe quello di riassumere nel modo più semplice possibile le idee e i concetti della parte di programma svolta fino a quel momento in modo tale da far comprendere agli studenti che la fisica è una scienza alla portata di tutti. So bene che la fisica in un ordine scolastico “per ragionieri” non è eufemisticamente ben vista sia perché veicola contenuti fuori contesto nel curricolo professionale di una scuola commerciale, sia perché molti docenti di matematica e fisica non hanno amore per la didattica della fisica e privilegiano fortemente e in modo disequilibrato il curricolo, insegnando quasi sempre matematica soprattutto nella componente applicativa del calcolo e non come metodo e cultura. Per la matematica non so che programma abbiano svolto gli studenti delle varie classi. Dovrò informarmi da loro. Così ripasso un po’ di algebra: espressioni algebriche, massimo comune divisore e minimo comune multiplo, equazioni di primo e secondo grado. Basta così. Domani improvviserò. La sera mi addormento per la seconda volta un po’ teso e ancora spossato ma curioso per come evolverà la giornata di domani.

4 – Il primo giorno di scuola da professore

L’indomani alle sette meno un quarto vengo svegliato dalla telefonata dell’addetto alla ricezione. Avevo chiesto la sveglia. Di solito a casa ho una piccola sveglia sul comodino ma non l’ho portata. Fa nulla. Mi rado con la schiuma da barba prodotta dal pennello con il sapone da barba Proraso. Inevitabilmente mi viene di pensare ai miei esami di maturità quando cinquantasei anni fa, alla stessa ora, per la tensione dell’esame mi tagliai il labbro. Desidero ricordare quei momenti perché adesso se sto qui per iniziare la mia nuova vita da insegnante lo devo anche a quel giorno e a quei momenti che precedettero la prima prova scritta di italiano.
Mi guardo allo specchio cercando di trovare nel mio viso delle imperfezioni da correggere per essere più presentabile alla prima prova scritta dell'Esame di Stato dell’anno scolastico 1964-65. Si chiamava così a quei tempi l'esame di maturità di oggi. Non c'erano tesine, né scelte di materie, né scorciatoie. L'esame consisteva in due scritti e un orale comprendente tutte le materie dell’ultimo anno escluse Educazione fisica e Religione. Dunque, guardandomi allo specchio mi vedo improvvisamente adulto per la prima volta. Fra pochi giorni compirò 19 anni. È la mattina del 1° luglio 1965 e mi trovo nel bagno della pensione nella quale abitavo a Messina in Via dei Mille, angolo via Maddalena. La mia scuola era in via Ugo Bassi. Quella mattina mi sentivo emozionato e nello stesso tempo ero consapevole dell’importanza della giornata cruciale che stavo iniziando. Fu la tensione dell’esame a crearmi un problema. Sto facendomi la barba con una lametta Gillette inserita in un rasoio a testina. L'emozione è forte. Penso che stia per coronare il sogno di conseguire il diploma di scuola superiore per diventare perito industriale e sono molto vicino alla meta. Ancora non sono consapevole del tutto della portata che avrà su di me l’evento di superare questo esame di Stato, ma sono certo che dovrò dare il massimo. Ho sentito parlare molto i miei compagni di scuola che riceveremo inviti a lavorare nelle industrie del Nord che hanno bisogno di periti industriali. Sono teso. Improvvisamente una gocciolina di sangue appare nel sapone da barba in parte rimasto spalmato dal pennello nella parte superiore del labbro. Dico a me stesso: “ecco qua, mi sono tagliato e proprio oggi”. Questo fatto mi altera la concentrazione. Non posso arrivare a scuola in ritardo. Strofino immediatamente l'allume di rocca sul labbro per fermare la fuoriuscita di altre goccioline di sangue. Fa effetto. L'allume di rocca è eccezionale in questi casi. Mi ricorderò di questo piccolo incidente per tutta la vita.
Questa volta non mi tagliai. Sorrisi al ricordo di quella scena accadutami otto anni fa. Mi vestii con camicia e cravatta, indossai la giacca e il cappotto e uscii. L’addetto alla ricezione ci rimase male. Credeva che io facessi colazione nella saletta del ristorante. Io invece andavo al bar di fronte la scuola e non solo per fare colazione. Volevo toccare con mano l’atmosfera relativa a un quarto alle otto e contemporaneamente essere lì a due passi dall’entrata della scuola. Volevo godermi i pochi minuti di sosta nel bar. Compresi subito che ero in anticipo. Erano le 7,20. Mancavano venticinque minuti all’orario stabilito. Rallentai il passo. Osservavo i muri delle case e l’ordinato e veloce passaggio dei pedoni sui marciapiedi. La giornata non appariva luminosa come quella di ieri all’arrivo. Forse era perché era mattina presto. Nel bar ordinai un cappuccino e un Buondì Motta. Mi guardai intorno e con mia grande sorpresa ero il solo cliente che beveva una tazza di latte e caffè con la schiuma. Tutti gli altri bevevano dei bicchieri di grappa. “La grappa a colazione” mi chiesi. Cos’è uno scherzo? Ero sbigottito. “Ma che novità è mai questa” mi chiesi. Sono impazziti qui in questa città? Mai e poi mai avrei immaginato di veder bere un superalcolico di mattina presto e a stomaco vuoto. Le sorprese certamente non mancavano in questo lontano angolo della Lombardia.
Guardavo l’orologio con ansia ma ancora era presto. Uscii e notai che l’aria era pungente e molto fredda. Tentati di fare il giro della scuola ma per paura di fare tardi feci avanti e indietro sul lato di via Caimi dove vi era il carcere. Strano anche questo. Un carcere vicino a una scuola.
Alle otto meno un quarto in punto varcai la soglia della porta d’ingresso. Mi apparve una enorme entrata con molti gradini di pietra come quelli di una chiesa importante che mi proiettarono al piano terra della scuola. Salili altri gradini di una bella scalinata in pietra per arrivare al primo piano dove c’erano gli uffici della Segreteria. Chiesi al bidello del Vicepreside. Mi aspettava davanti alla sala degli insegnanti. Con cordialità si presentò e mi informò di alcuni miei doveri, tra i quali il rispetto dell’orario di lavoro. Mi accompagnò in Segreteria. Mi diedero l’orario settimanale delle lezioni, i registri delle tre classi assegnate di cui due classi di primo anno e una di secondo anno al biennio e mi consigliarono, dopo le lezioni, di ritornare da loro per fornire le mie generalità e ritirare il foglio di nomina.
Entrai in aula. Gli studenti si alzarono in piedi. Dissi loro “buongiorno, accomodatevi. Sono il vostro nuovo insegnante di matematica e fisica. Sostituisco la vostra ex professoressa che è stata trasferita in un’altra scuola” e feci l’appello. In realtà il vicepreside mi aveva detto che l’insegnante trasferita era siciliana come me, ma di Agrigento. Non avevo una borsa e dovetti mettere sul tavolo tutti i registri delle classi. Pensai che di pomeriggio avrei fatto delle spese di cartolibreria nel supermercato vicino all’albergo. La mattinata volò via velocemente. Gli studenti mi sembrarono molto educati e rispettosi. Rimasero stupiti nell’ascoltare la lezione di fisica. Mi dissero che avevano ascoltato pochissime lezioni di fisica dalla loro ex insegnante perché preferiva fare matematica che riteneva più importante. “In realtà” dissi tra me “non conosceva bene la fisica e dunque la relegava in un angolo”. So bene come vanno queste cose.
Le lezioni iniziavano alle ore otto. “Molto presto” pensai. Un orario inverosimile in Sicilia. Nell’isola le lezioni iniziano tutte alle 8.30 e questa fu l’ennesima stranezza della scuola valtellinese che notai quella mattina. Tutto si svolse in modo ordinato e professionale. Niente pacche sulle spalle né presentazioni ai colleghi. Tutto mi sembrò misurato, sobrio e ordinato. Ricevetti anche la chiave del cassetto personale dove conservare i registri di classe e la documentazione scolastica. Come prima impressione ero molto soddisfatto della scuola e dei ragazzi. Credetti veramente di avere avuto il massimo. Si apriva così una bellissima pagina iniziale della mia vita professionale ma anche personale che costituì il primo passo della mia attività di insegnamento. Di pomeriggio avrei telefonato a casa per informare mia madre della situazione rosea nella quale mi trovavo. Uscii da scuola appagato e contento.

5. A passeggio per la città

Il pomeriggio andai a comprare alcuni oggetti di cui avevo bisogno. Prima però feci un giro in centro, vicino al mio albergo e alla mia scuola. Piazzale Bertacchi e Piazza Garibaldi furono i due luoghi che mi permisero di osservare alcuni comportamenti degli indigeni. Nessuno parlava ad alta voce, pochi assembramenti di poche persone, abbigliamento pratico e poco elegante, capelli scuri nella maggioranza dei casi, rispetto delle norme di circolazione dei veicoli e dei pedoni, insomma bella gente per una bella cittadina. “Penso che mi troverò bene” mi dissi entrando sotto i portici della piazza dove si trovava un supermercato.
Al piano inferiore c’era il supermercato Scherini mentre al piano strada un grande magazzino, con abbigliamento e profumi. Gironzolando in questa sezione vidi il reparto attrezzi da barba. Improvvisamente mi sento chiamare da una impiegata del reparto di profumeria che sussurrando per non farsi sentire dalle sue colleghe mi chiede: “scusi signore, potrebbe dirmi a cosa serve questo”? E mi fece vedere una confezione di allume di rocca in vendita. La ragazza è giovane e carina. La guardo con perplessità. Deve venire da un paesino della provincia perché il suo trucco è pesante e tipico delle ragazze poco esperte. Il trucco non la ingentilisce. La guardo sorpreso che non sapesse cosa fosse l'allume di rocca, quella pietra quasi trasparente più piccola di un pacchetto di sigarette di colore bianco ghiaccio, perfettamente squadrata e abbastanza pesante per le sue dimensioni. Nel giro di pochi secondi capisco che non sapeva a cosa servisse e che probabilmente si è sempre vergognata di chiedere alle sue colleghe a cosa servisse. Aveva scelto me tra i tanti clienti perché davo l’impressione di non essere un cliente curioso. Le rispondo che serve per eliminare il bruciore della rasatura effettuata con la lametta e a fermare, se necessario, il sangue di eventuali tagli. E fra me aggiunsi “come successe a me otto anni fa la mattina della prova scritta di italiano”. Sorrisi. Curioso come si possono combinare gli eventi che per cause diverse mi sono venute alla mente in pochi giorni.

mercoledì 12 marzo 2014

Amour, un film calvario per gli spettatori.


Oggi desideriamo parlare di un film, di un grande film, vincitore di molti premi internazionali che definire straziante è poco. Non stiamo esagerando. Il tema è l’amore, la malattia e l’eutanasia. Vogliamo parlarne perché il film è un autentico capolavoro della cinematografia europea che merita attenzione in quanto tratta un tema delicato, complesso e al tempo stesso di scottante attualità. E' stato scritto e diretto da Michael Haneke, noto regista austriaco, ed è interpretato magistralmente dalla splendida coppia di ottuagenari francesi Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva. Il film lo abbiamo visto due volte e siamo del parere che dovrebbe essere rivisto una terza volta per evitare di dare un giudizio affrettato. Questa recensione è pertanto incompleta e forse poco adeguata. Un vecchio maestro della scuola elementare del mio paese soleva dire che un film dovrebbe essere visto tre volte. La prima volta distrattamente. La seconda volta facendo attenzione a comprendere i particolari della trama e i diversi piani del suo contenuto. La terza per dare un giudizio di valore e nello stesso tempo trovare similitudini ed analogie con altre opere cinematografiche o romanzi letterari che possano permettere riflessioni di un certo spessore. Riconosciamo che il proposito è ambizioso e d'altra parte non mancano seri motivi per parlarne. In rete e sulla stampa c’è molta prudenza a non svelare il finale del film. Spesso si nota una esagerata attenzione a non parlarne troppo, perché il tema è scottante. Comprendiamo che non è corretto parlare di un film e comunicarne il finale a chi non l’ha visto perché si annulla l’elemento sorpresa. Ma ciò che non possiamo accettare è che con questa scusa si nasconde il tema dell’eutanasia volontaria dietro il timore di svelarne la parte finale. Ebbene, noi vogliamo andare controcorrente. Anticipiamo dunque la conclusione che si può trarre dall'analisi del contenuto e diciamo subito che il tema di fondo è la "soluzione" al problema dei malati terminali. Nel caso specifico è l’eutanasia volontaria della moglie (dal greco buona morte) e il conseguente suicidio del marito. Dunque, sfatiamo il fatto che la trama riguarda solo il tema della malattia di un’anziana professoressa di musica in pensione. E’ anche questo, ma non è solo questo. Dopo l’insorgere della malattia il vero filo conduttore del film è la questione della prospettiva di una vita di emarginazione, di solitudine e di sofferenza che prepara alla morte l'anziana donna oppressa da continue afflizioni e con le sue difficoltà fisiche e psicologiche dovute al suo status di anziana ammalata che si trova a vivere gli ultimi anni della sua vita nella società contemporanea. Georges e Anne, questi sono i loro due nomi, con la malattia di Anne, sperimentano cosa significhi essere vecchi e malati in una società che ha abbandonato alla deriva valori e solidarietà per gli anziani al limite della autosufficienza e che fa precipitare sempre più in una spirale di cinismo, egoismo e indifferenza la loro esistenza. Georges ama la moglie Anne. I due fanno una vita da pensionati, come è giusto che sia alla loro età. Il tran tran quotidiano viene purtroppo interrotto dall’imprevedibile ictus che la moglie subisce una prima volta all’inizio della sua parabola discendente e una seconda volta in modo più drammatico a distanza di pochi mesi. Settimane di attesa per Georges, un tempo indefinibile di inferno per Anne. La vita così come l’hanno finora vissuta subisce una virata drammatica in peggio e diventa impossibile vivere come prima. La dignità della donna è messa in discussione giorno dopo giorno. In un crescendo di situazioni sempre più disperate il regista gira le scene con la cinepresa ferma sempre nello stesso ambiente e sui volti dei due attori, in modo statico e monotono, esaltando la precarietà della loro vita. Costretti a vivere in un discreto appartamento parigino che mostra i segni del tempo e del passato i due attori sono bravissimi ad evidenziare stati d’animo che comunicano un trasporto emotivo e un dolore così intenso da paralizzare lo spettatore. Il film, nel secondo tempo, imprime una accelerazione violenta alla relazione fra i due, che fa passare lo spettatore da una partecipazione terza, pressoché estranea e disinteressata, ad un’altra più impegnata in prima persona quasi che la vicenda non interessasse più i due soggetti del film ma noi stessi. La vera forza di questo film è la potenza delle immagini che ci vedono specchiarci nel film come se fossimo noi i veri protagonisti di una vita futura da incubo ineluttabile. L’incalzare degli eventi è così ben calibrato e ben proposto che si passa sempre più da stati di pacata consapevolezza circa il tema della malattia degenerativa a stati di vera e propria ansia dagli sviluppi incerti in cui ci si chiede sempre più frequentemente che cosa potrà succedere di più grave di quello che si è già visto fino a quel momento. Quale sarà il finale? Già, il finale. In rete non ci sono recensioni che dicono come finirà. Tutte le informazioni si mantengono nel vago e nell’indistinto. “L'amore che unisce la coppia verrà messo a dura prova” recita una di queste. Ma che significa che verrà messo a dura prova? Che ci saranno difficoltà economiche per comprare medicine costose ad Anne? Che ci vorranno sforzi notevoli nel seguirla nel suo percorso di ripresa? Non si capisce. Tranne rare e poco conosciute recensioni che fanno cenno alla morte di Anne non c’è quasi nulla di preciso su ciò che sta per accadere alle due figure diventate per noi figure familiari. A Georges ed Anne, non solo ad Anne. Perché il dramma non è solo Anne allettata dalla malattia che la priva gradatamente di ogni facoltà e che la rende sempre più determinata a rifiutare medicine e cibo ma è soprattutto Georges, ovvero colui che appare più integro dei due, almeno nelle sue capacità psicologiche. Cosa passa per la sua mente quando nei rari momenti in cui si siede sulla poltrona e ascolta le note al piano di una registrazione musicale della moglie, in cui i suoi occhi la "vedono” alla tastiera del pianoforte come se l’onda del tempo si fosse fermata? In realtà la durezza, la spietatezza e la raggelante sequenza di idee che sviluppa il copione sono proposti dal regista per arrivare al punto in cui Georges commette l'insano gesto di uccidere per soffocamento la moglie con una lucidità e una determinazione che fanno male, molto male. Il film raggiunge vertici di drammaticità straordinariamente crudeli in cui la scena imprevedibile della morte per soffocamento della moglie fa da sfondo ineluttabile all’unica soluzione possibile, quella di una eutanasia volontaria che liberi la moglie e lui da ulteriori sacrifici insopportabili e, comunque, ormai inutili. Si tratta di 110 minuti di preparazione alla tragedia finale che lasciano in bocca l’amarezza che ci prende per i momenti successivi come se avessimo subito una devastante pugnalata allo stomaco. Sbigottiti dalla scelta del regista di far vedere la sequenza di immagini della morte di Anne siamo costretti a riflettere sull’accaduto per giungere a comprendere che il finale non poteva non essere che quello e quello soltanto: la morte di entrambi per scelta consapevole e concordata. Ci si ricorda a quel punto della scena iniziale del film, all’inizio poco decifrabile e senza senso dei vigili del fuoco che irrompono in un appartamento e trovano una donna anziana tutta vestita di nero morta da tempo in un letto. Era Anne vestita di tutto punto e dolcemente rivestita di petali di margherite che Georges, in un momento di struggente amore per la moglie ormai defunta, le ha comprato dal fioraio sotto casa dopo averla uccisa. Lo spettatore a quel punto è spacciato. Non ha più armi per difendersi dai duri e crudeli pensieri che lo pungono. Si percepisce subito che quel film lascerà su di esso e sulla sua vita futura una impressionante condizione di pessimismo cosmico. Il film introduce a questo punto una discontinuità tra “un prima” e “un dopo” della scena finale. L’interruzione e la rottura della continuità della vita non è tanto la morte di Anne. La sua morte era già stata compresa da tempo e non scombussola per questo. Il break vero e proprio è l’immagine della scomparsa della figura di Georges dalle scene successive che lasciano immaginare un suo gesto ultimo e disperato dopo la morte della moglie. Simona Pecetta, a questo proposito, dice che: "la morte e il morire che per lo più possiamo sperimentare sono il morire e la morte degli altri, di quelli che ci circondano e se la morte, per quanto assurda e imperativa, può essere compresa come condizione stessa del vivere umano il processo del morire, invece, non solo manifesta la fragilità umana, ma ne mette in questione la dignità. L'esperienza del morire dell'altro è allora una domanda che interroga l'uomo direttamente su cosa renda vita una vita. Che lo chiama a comprendere anche l'amore in nuove forme, in insoliti gesti". Avevamo già visto un altro film sull’eutanasia dal titolo Mare dentro, del regista spagnolo Alejandro Amenabar. Il paragone però non regge perché il film di Amenabar del suicidio assistito del paralitico allettato Ramòn Sampedro è prevedibile sin dalle prime scene e avviene con una forma di eutanasia che è attiva e neutra. Qui invece l’eutanasia è volontaria e soprattutto la storia avviene all’improvviso a mo’ di sorpresa. Amarissima ma sempre una sorpresa. Non ce l’aspettavamo. L’omicidio, perché di questo si tratta, è prodotto “a fin di bene”. Anne non può più parlare e dunque non può più vivere. La sua dignità di essere umano raggiunge il punto più basso nella scala dei sentimenti. Ormai nulla ha più senso per lei. Georges comprende che è finita per tutti e due. E dire che alcune scene danno l’idea che tra i due si fosse creata un’intesa che va oltre il non accompagnarla all’ospedale, ma di farla finita insieme, uno dopo l’altra. Sulla sorte di Georges il film non dice nulla. Ma è chiaro che la vita di Georges non ha più alcun senso. Mentre i sottotitoli scorrono sullo schermo nero ci sentiamo confusi, scossi e commossi come se ci avessero dato un pugno allo stomaco. Anzi molti di più e di seguito. E la mente che va per conto suo dove non dovrebbe mai andare: a noi, ai nostri familiari, ai nostri genitori, già morti da tempo e che con questo film sono morti una seconda volta creando di nuovo ferite mai risolte. I ricordi scorrono veloci e le sensazioni prodotte dalla storia di Georges e Anne creano assurdi handicap per il futuro. Il film obbliga a pensare in modo concreto e reale all’eutanasia. In Italia è ancora un tabù. Basti pensare a che cosa è successo con il “caso Englaro”, pallido esempio al confronto del contenuto del film di Haneke. Emanuele D'Aniello a questo proposito conclude la sua recensione del film Amour dicendo: «[...]nonostante tutto lo strazio ed il dolore, la povera Anne guardando vecchie foto capisce che una lunga vita vale la pena di essere vissuta. Certamente e giustamente, non va vissuta la morte».

mercoledì 5 marzo 2014

Giornalismo straccione e cultura internazionale negata.


Siamo alle solite. Per giunta con la recidiva. La stragrande maggioranza dei giornali ha dato la notizia del primo viaggio all’estero del Presidente del Consiglio Matteo Renzi a Tunisi parlando quasi esclusivamente del suo francese non proprio sorboniano e del fatto che abbia pronunciato male un “tweet”. La stampa italiana non cambia mai. I direttori dei maggiori quotidiani e i loro giornalisti sono bravissimi nell'oscurare i fatti politici associati a qualunque viaggio di carattere internazionale effettuato dai nostri premier e a esaltare, viceversa, il pettegolezzo su fatti di casa che li riguardano. Renzi va a Tunisi per sostenere il processo di democrazia e libertà dei cittadini della Tunisia e la stampa italiana che fa? Invece di riportare con precisione la posizione italiana relativa al processo di democratizzazione dei paesi arabi che si affacciano sul mediterraneo informa con dovizie di particolari futili e del tutto inutili che al Presidente del Consiglio "scappa un ginguettio" (La Repubblica) e che il premier si infastidisce con un giornalista italiano per una domanda che paragona l'Italia alla Tunisia (Il Corriere della Sera e La Stampa). Addirittura pochi giornali online fanno vedere un inutile e breve filmato della visita mentre nei rimanenti non si trova alcuna traccia. Un vero e proprio provincialismo italiano che produce come ricaduta una grande ignoranza dei cittadini sui fatti di politica estera per la scarsità di problemi internazionali trattati dai media nazionali e per la pochezza culturale del loro giornalismo. Attenzione poi che questi soggetti dell’informazione sono gli stessi che poi criticano i politici per la loro insipienza, trovando la “pagliuzza” nel loro occhio e non vedendo la “trave” nel proprio. A quando in prima pagina il colore dei calzini del premier di turno e a seguire il gossip sulla sua vita privata?

lunedì 3 marzo 2014

Molta segregazione e poco olfatto.


Brutta storia questa della donna che per ben otto anni è rimasta segregata in un appartamento campano, vivendo senza luce e riscaldamento una vita da incubo. I giornali dicono che è stata segregata in casa dalla madre a vivere con porte e finestre sempre chiuse. La magistratura farà le sue indagini e accerterà le responsabilità. A noi interessa dare una risposta alla domanda: come mai nessuno se ne è accorto prima? È evidente che non è possibile giustificare questo caso alla luce delle categorie di scuse banali e consuete. Un esempio per tutti. L'appartamento si trova in una palazzina al terzo piano, con circa una decina di unità immobiliari. La domanda diventa: perché nessuno ha mai protestato per il cattivo odore dovuto alle pessime condizioni igieniche? Diciamo subito che qui non ci interessano né gli aspetti di cronaca, né gli aspetti relazionali esistenti tra madre-matrigna e figlia-vittima. Ci interessano viceversa i fattori di senso relativi sia alla "morale" dei condomini, sia alla qualità della "vita condominiale" vissuta da questi vicini. Alla prima domanda rispondiamo che sarebbe penoso e immorale la giustificazione che non sono fatti nostri. Molti dicono che c'è una vita privata da tutelare. Peccato che qui tutelare la privacy della madre equivale a sostenere la tesi della connivenza con l'autrice del reato di segregazione. Si, connivenza per non dire complicità. Perché di questo si tratta, almeno a leggere i giornali. Diciamolo chiaramente, i vicini di casa non potevano non sapere. In otto anni saranno successi tanti eventi condominiali in grado di poter dare un'idea di ciò che si verificava in quell’appartamento. Ma l'aspetto più inquietante riguarda le figure forti coinvolte in questa vicenda e cioè il portiere e l'amministratore di condominio. Qui si tocca con mano la tolleranza o peggio il tacito consenso dell’azione scorretta e colpevole dei vertici condominiali nei confronti della condomina madre. In ogni stabile c'è sempre un condomino che si interessa dei fatti condominiali anche quando non esiste la figura formale del portiere. Possibile che costui o costoro non sapessero? E l'amministratore non ha nulla da dire sugli aspetti igienico-sanitari carenti fino all'inverosimile che si deducono dalle maleodoranti stanze in cui era accumulata immondizia da tempo? Ad un amministratore di condominio serio non poteva sfuggire una simile tragedia. Lui sarebbe dovuto intervenire molto tempo prima per far cessare un fatto che non è solo degrado del condominio ma un vero e proprio reato. Codice civile e regolamenti di condominio impongono interventi delle Asl o, in casi limiti, della magistratura. Il Parlamento della Repubblica Italiana l'anno scorso ha approvato una legge di riforma del condominio che è ridicola e poco efficace. Centinaia di deputati e senatori hanno discusso per anni inutilmente di riforma del condominio, partorendo alla fine un piccolo “topolino” di norme che non hanno modificato quasi nulla degli aspetti negativi esistenti in precedenza. Dopo migliaia di ore di discussione hanno cambiato solo alcuni dettagli di pochi articoli e basta. All'amministratore di un condominio avrebbero dovuto dare poteri forti e reali per ridurre considerevolmente il grado di litigiosità della vita condominiale e tutelare più efficacemente gli aspetti igienico sanitari dell’edificio. Invece si è voluta fare una riforma che tutelasse gli interessi delle varie lobbies degli avvocati e degli studi professionali di architetti e ingegneri. Siamo sempre alle solite. Invece di andare incontro ai molti, si permette ai pochi di arricchirsi.

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