mercoledì 30 marzo 2005


Tre extraterrestri a 8½.

Ieri sera, nella quotidiana fascia oraria serale, il canale televisivo La7 ha trasmesso un interessante dibattito sull’«immortalità» dell’uomo. Intelligentemente condotto dai due conduttori, Ferrara e Armeni, la puntata in questione è stata veramente interessante perché sono state brillantemente coinvolte tre personalità del mondo della cultura italiana che hanno trattato dei temi, oserei dire, singolari e degni della massima attenzione. Protagonisti del dibattito tre extraterrestri. Tre uomini che abbiamo ascoltato con piacere. Due scienziati (un ingegnere, Galeazzo Sciarretta e un biologo, Edoardo Boncinelli) e un filosofo Emanuele Severino. Il dibattito è stato straordinario. I temi affrontati hanno coinvolto tutti i partecipanti nella discussione sul saggio Verso l'immortalità? La scienza e il sogno di vivere il tempo, Edizioni Cortina, in modo non teatrale e con la massima considerazione per la valenza delle cose dette. Di cosa si è parlato? Dicevamo dell’«immortalità». Questo sostantivo virgolettato, se non diligentemente scritto può trasformarsi nel significato opposto (togliendo la t, infatti, si ottiene l’altro sostantivo immoralità, che è tutt’altra cosa), è stato sviscerato nei suoi multiformi e poliedrici significati. Sostanzialmente si è parlato della possibilità concreta di allungamento della vita di moltissimi decenni in più di quella attuale. Tuttavia, qui non ci interessa il contenuto del dibattito, ma la modalità della comunicazione. Ordinata, ancorché serrata. Chiara, nonostante i temi affrontati siano stati portatori di linguaggi chiusi ed esasperatamente tecnicistici. Interessante, perché il dibattito è stato brillantemente canalizzato verso temi di grande valenza culturale e di considerevole curiosità. Insomma, in una sola parola, esemplare. Tutti i dibattiti dovrebbero prendere a modello quello sviluppato ieri sera dalla televisione La7. I dibattiti sono necessari per far comprendere ai cittadini le tematiche politiche e di attualità che possono permettere a questi ultimi di orientarsi significativamente e consapevolmente nelle varie tornate elettorali. Nella realtà, invece, si nota tutto il contrario. Politici che si beccano in modo irresponsabile e superficiale, sindacalisti che accusano e sono accusati in modo maleducato e volgare, parlamentari che effettuano interventi polemici offendendo l’intelligenza dei telespettatori, ecc… Ma costoro, quando capiranno che la volgarità e la insipienza sono terribili sentenze sulla loro intelligenza?

domenica 27 marzo 2005

Egregio Presidente Romano Prodi,

abbiamo ricevuto la sua lettera con allegato il bollettino postale per sostenere la sua coalizione. Sebbene il nostro conto corrente sia ormai più virtuale che reale, grazie al continuo saccheggio da parte del governo Berlusconi, che con una mano ci regala 1 e con l'altra ci toglie 5, abbiamo deciso di inviare ugualmente una piccola somma per contribuire fattivamente alla sua campagna elettorale. Le auguriamo di cuore, per le prossime elezioni regionali, ma anche e soprattutto per le politiche del 2006, di riprendere le redini di questo sciagurato Paese di "ingenui Pinocchi" che hanno creduto alle lusinghe di Lucignolo. Sia la nostra Fata turchina, apra gli occhi a quelli che ancora non hanno capito e soprattutto, ci tolga dai guai in cui siamo finiti quattro anni fa. Un abbraccio da tutta la famiglia.
Aleka

sabato 26 marzo 2005


Giornalismo d’attacco e doppio gioco.

Ormai è tutto chiaro. In un mondo giornalistico com’è quello della carta stampata, puzzolente per mancanza di imparzialità, in cui tutti sono contro tutti e mai sono d’accordo su nulla, il giornale di “sinistra-sinistra” l’Unità, si distingue per essere ancora più di tutti, contro tutti. Non gli basta essere di “sinistra-sinistra”, vuole essere l’unico bastian contrario del mondo mediatico del paese. Nasce così l’esigenza di colpire l’attenzione della gente sparando notizie non controllate come quella veicolata dall’articolo che screditava il padre dell’attuale Presidente della Regione Lazio Storace. E adesso deve scusarsi, perché l’ha fatta grossa. Questi i fatti e passiamo come al solito alle opinioni. Il Presidente berlusconiano della Regione Lazio ha ragione quando afferma che l’Unità ha commesso il peccato più grave che un quotidiano possa commettere: linciare l’avversario mediante articoli falsi che riguardano accuse infondate su familiari ai quali si addebitano colpe per avere commesso crimini infami. C’è qualcosa di più odioso di questo atteggiamento? E il Direttore dell’Unità che fa? Da giornalista scorretto e poco professionale come ha dimostrato di essere, ricatta il Presidente della Regione Lazio dicendo che lui si dimette a condizione che anche l’altro, che ha subito la scorrettezza, si dimetta. Capito che serietà? E che logica? Una persona scorretta viene pescata con le mani nella marmellata e invece di scusarsi con l’avversario, chiede all’altro che anche lui si deve dimettere. Mi ricorda tanto l’automobilista romano che, beccato dal vigile a passare col rosso, cosa fa? Invece di scusarsi e pagare la multa inveisce contro tutti i vigili del mondo e non paga. Bravo Padellaro! Assodato a questo punto che il suo giornale ha pubblicato una notizia falsa, resa nota senza il necessario controllo preventivo, è lecito avere il dubbio che l’abbia fatto altre volte. Anzi. A questo punto vogliamo fare una dietrologia. L’articolo dell’Unità ha fatto harakiri, e si è scoperto il gioco della Redazione di quel quotidiano. Ecco l'ipotesi. Quel giornale è in realtà, indirettamente, il principale sostenitore dello schieramento di centrodestra. I suoi articoli, apparentemente scritti contro il Presidente Berlusconi, mascherano nella sostanza un progetto politico ben chiaro: affossare la credibilità dell’Unione di Prodi così come la vuole il Professore, mediante interventi estremistici apparentemente a favore del centrosinistra. Atteggiamento squallido e cinico. D'altronde, chi fece dimettere il Presidente Prodi dopo due anni dalla vittoria del centrosinistra nel 1998? Bertinotti, l'uomo super della "sinistra-sinistra". Dunque, è un vizietto di coloro che si sentono superiori. Ma quel giornale, non ha niente a che vedere con l’Unità del vecchio PCI. Almeno quei giornalisti di decenni fa erano seri. Questi fanno ridere.

venerdì 25 marzo 2005


Quando si perde il senso della misura.

Dico subito che vedo con favore la costituzione di un forte Comitato per il Referendum a favore dell’abrogazione della nuova legge costituzionale, di marca secessionista della Lega Nord, che sta per essere licenziata dal Parlamento. Sono disponibile a che si costituisca un Comitato, il più allargato possibile, che abbia un articolato e completo controllo del Territorio, affinché il numero delle firme da consegnare al Tribunale competente non sia il minimo di 500 000, come previsto dalla legge, ma addirittura 5 000 000! Penso che Berlusconi questa volta l’abbia fatta grossa. Sarà, comunque, interessante vedere quale posizione assumerà in questa vicenda la Chiesa Cattolica.

giovedì 24 marzo 2005


Politica e sonnifero.

L'economia italiana va malissimo ed è la peggiore in Europa perchè diretta da incompetenti o nel peggiore dei casi da imbroglioni, come è stato il caso dell' ex Ministro Tremonti, inventore della finanza creativa, che ha commesso l’imperdonabile scorrettezza ai danni dei lavoratori della scuola, cancellando gli effetti di una legge che prevedeva degli impegni precisi presi in Parlamento appena l’anno precedente (art.16 della legge n.448 del 2001). Questa economia va male oltre che per incompetenza anche perchè non è così grande e avanzata tecnologicamente da compensare la concorrenza micidiale dei paesi a basso costo del lavoro come la Cina e gli altri paesi asiatici. Ma perché allora il Governo italiano non ha fatto i dovuti investimenti nel campo della ricerca e delle nuove tecnologie? Il mercato dei servizi in Italia, poi, che è il più grosso e il più appetibile di tutti (vedi Banche, Assicurazioni), è chiuso alla concorrenza, è arretrato e preda di pratiche clientelari con dirigenti incapaci che sanno dire solo 'signorsi' al politico di turno. E allora perché il Re del mercato liberale non ha proceduto a liberalizzare il mercato introducendo il principio della libera concorrenza? Insomma, il governo Berlusconi, capisce o non capisce questo semplicissimo teorema? Si che lo capisce. Il Re dell’emittenza privata e pubblica sa benissimo come stanno le cose, ma non può cambiare nulla perchè altrimenti si autodistruggerebbe. Mister TV, stancato da una politica di tutti contro tutti, ricattato dalla Lega di Bossi, malvisto in Italia e all'estero perchè ha caratterizzato finora la sua politica europea con un uso strumentale dell’Europa, è convinto di poter limitare i danni con un po’ più di protezionismo e un po’ più di indebitamento. Ecco spiegato il trionfalismo manifestato dopo la decisione di Bruxelles di rivedere il patto di stabilità per spendere di più. Ma qui cade l'asino, perchè non sarà il 3.0 o il 3.5% a modificare l'economia italiana. E' necessario procedere a investimenti di tutti i tipi. Ma Berlusconi non sa dove trovare i soldi. Come finirà questo circolo vizioso? Semplice. Il paese regredirà sempre di più e lui incolperà di questo i comunisti. Infatti, è tutto un imbroglio dei comunisti si prepara a dire nei prossimi mesi. Ma si può andare peggio di così? Il centrosinistra non dimentichi che se ci troviamo a subire un governo del genere è tutta colpa sua, perchè nel 1998, dopo aver fatto cadere il governo Prodi, ne ha fatte di tutti i colori, facendo arrabbiare anche i suoi sostenitori, alcuni dei quali per punire la supponenza dei vari D'Alema, Berlinguer e C. gli hanno votato contro. Il centrosinistra mediti e non sbagli più.

mercoledì 23 marzo 2005


Do ut des, vero o falso?

"Siamo preoccupati per il futuro del Paese". Quante volte abbiamo sentito o letto questa frase. Eppure la dichiarazione è sempre di grande attualità, come per esempio nei prossimi referendum che ci attendono da qui a qualche anno. La preoccupazione sorge legittima quando il do ut des può significare che Io (Berlusconi, Capo del Governo italiano) do a te (Ruini, Presidente della Conferenza Episcopale italiana) un "aiutino" al Referendum sulla procreazione assistita, invitando il mio elettorato a non andare a votare per annullare il referendum, e tu (Chiesa Cattolica) darai un "aiutino" a me (Berlusconi) per votare contro il no dell'opposizione al referendum confermativo costituzionale relativo alla devolution voluta dal mio amico Bossi. Noi siamo del parere che questo scambio non ci sarà. Il futuro Papa Ruini sa benissimo che sarebbe un errore imperdonabile scambiare questo tipo di favore con il Primo Ministro italiano, perchè commetterebbe un errore irreparabile. Quale? Rovinerebbe in un solo mese un cinquantennio di eccellente immagine acquisita dalla Chiesa Cattolica nel mondo politico nazionale e internazionale a partire da Giovanni XXIII fino all'attuale Papa Woityla. Vi pare poco?

martedì 22 marzo 2005


Berlusconi esulta per la riforma dei criteri di Maastricht.

Il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, si dice più che soddisfatto e orgoglioso della riforma del Patto di Stabilità approvato l'altro giorno dai Ministri economici e finanziari dell’Unione Europea. Ne rivendica addirittura il merito come il Primo fra tutti i Primi Ministri che aveva capito tutto. Com’è presuntuoso questo Primo Ministro italiano. Si dice contento del fatto che adesso c’è meno rigore nei conti pubblici. Un vero politico non gioisce quando in una famiglia si decide di spendere più di quanto si incassa. In questi casi, prima o poi si fallisce. A casa mia ho sempre insegnato ai miei familiari di spendere sempre meno di quanto si guadagna: mai il contrario. E soprattutto non si fanno debiti! Ma lo sappiamo. A Berlusconi non interessa il bene dell’Unione. A lui interessa la finanza allegra e poter parlare, parlare, parlare, per dire sempre le stesse cose: io, io, io, io ho abbassato le tasse. E poi si scopre che il mese successivo, sulle buste paghe dei lavoratori dipendenti, le trattenute sono state il triplo del mese precedente. E’ uno smargiasso menzognero, che usa la bugia come strumento pubblicitario di campagna elettorale. Non si accorge che i Pinocchi, prima o poi, verranno messi dietro la lavagna col cappello degli asini. Altro che smargiassate.

lunedì 21 marzo 2005


Strumentalizzazioni sull’inchiesta dell’anagrafe di Roma e campagna elettorale regionale nel Lazio.

"Sono entrato nell'anagrafe del Comune. Un legale mi ha detto che dovevo farlo". Ecco la puerile dichiarazione di un dirigente della società che è sotto indagine per aver violato la banca dati del Comune di Roma. Questi i fatti. E adesso passiamo alle opinioni. Siamo alle solite. Pescato con le mani nella marmellata, il dirigente cerca scuse inopportune, puerili e inutili. Non impareranno mai. Da parte del centrodestra e del centrosinistra si grida allo scandalo. Da una parte si mostrano prove della violazione degli archivi. Dall'altra si minacciano querele. Da una parte si grida ai pericoli per la democrazia, dall'altra si minacciano le vie legali. Ecco uno spettacolo indegno di un paese civile in cui l’intera classe politica comunale, provinciale, regionale e nazionale si becca come le galline per accusarsi reciprocamente di fare il proprio interesse. I politici sono piombati come falchi sull’accaduto perché hanno capito che si profila un tornaconto pubblicitario di carattere elettorale notevole. E invece di smorzare i toni e parlare di programmi per le elezioni regionali si svia l’opinione pubblica onde mascherare le proprie insufficienze come intera classe politica incapace di aiutare i cittadini a migliorare la propria vita. Ma si può essere più in malafede di così? In pratica la campagna elettorale per le regionali del Lazio ha ormai imboccato la strada dello scontro istituzionale e legale tra Comune di Roma e Regione Lazio e nessuno parla più di programmi, di proposte politiche, di progetti per il futuro governo regionale. Diciamo la verità: ma era proprio necessario? La morale della storia è sempre la stessa. Siamo governati da una classe politica insufficiente e incapace, che bada solo ai propri interessi. Si dice che si è passati dalla prima alla seconda Repubblica. Questo passaggio noi non lo abbiamo visto. A nostro giudizio siamo rimasti nell’unica Repubblica vissuta: quella dell’imbroglio!

venerdì 18 marzo 2005


Politica tragicomica berlusconiana tra sceneggiata da salotto televisivo e dimissioni farsa di un suo ministro.

Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha detto che l'altra sera, nella trasmissione Porta a porta, è stato frainteso. Lui non ha mai detto che avrebbe ritirato il contingente italiano dall'Iraq a Settembre. Ha detto solo che era auspicabile che fosse ritirato, il che evidentemente è diverso. E come al solito è stata la stampa di sinistra a interpretare maliziosamente le sue parole. Peccato che rivedendo in televisione la registrazione, le cose siano andate esattamente al contrario. Dunque, come si spiegano queste incomprensioni? Semplice. La metà degli italiani che lo ostacola in politica non ha ancora capito che tutto il problema nasce da una questione di semantica, cioè tra significati differenti esistenti tra coppie di verbi. Non capite che significa? Ecco spiegato l'arcano mistero che contrappone da quasi quattro anni il Presidente Berlusconi con la stampa di tutto il mondo, soprattutto con quella comunista. Dunque, si tratta del fatto che quando Berlusconi usa il verbo "credere", in realtà intende riferirsi al verbo "auspicare". Capite? A questo punto, tutto diventa chiaro. Berlusconi ha detto che «lui crede che a Settembre ritirerà le truppe italiane dall'Iraq», ma con la precisazione di cui sopra, ha invece detto che «lui auspica che a Settembre le truppe italiane vengano ritirate dall'Iraq». Quindi tutto è ormai chiaro: l'incidente non è mai esistito e con Bush non esiste alcun problema. Peccato che mentre lui crede di avere risolto l'ennesimo incidente a suo favore, la stampa di mezzo mondo si sta facendo una sghignazzata planetaria, ridicolizzando il paese.

mercoledì 16 marzo 2005

Tra riforme e controriforme: il deterioramento del sistema scuola.

La questione della riforma della scuola secondaria superiore, mediante l’introduzione nel sistema scolastico liceale della scuola dell’autonomia, non è una cosa semplice e non si può ridurre il senso della sua portata in poche battute. E’ necessaria una adeguata riflessione e una non meno appropriata valutazione delle idee che si intendono proporre o criticare. E si sa che la fretta è cattiva consigliera. Il punto di partenza di un’analisi corretta e adeguata del sistema scuola riguarda il fatto che è stato pubblicato recentemente un libro di Luciano Benadusi e Francesco Consoli, La governance della scuola, Bologna, Il Mulino, 2004, i cui Autori hanno scritto ben 250 pagine di retorica paradigmatica a favore della scuola dell’autonomia che qui intendo contestare. A mio avviso, la scuola dell’autonomia è una buona proposta per una scuola di massa ma non è la proposta in grado di risollevare le sorti della scuola italiana. Così ho preso la decisione di scrivere queste poche righe, in modo tale da chiarire il mio punto di vista e passo subito ai fatti.
La scuola dell’autonomia ha avuto in questi ultimi anni tutta una serie di successi, più sul piano teorico-assiomatico-istituzionale e della costruzione di un quadro giustificativo che sul piano dei concreti risultati. Anticipo il mio punto di vista aggiungendo che la scuola liceale italiana dove si sperimenta questo curricolo innovativo, rischia, se non vi saranno interventi di correzione di rotta, di andare in crisi totale, ancor di più di quello che si profila all’orizzonte con la futura “scuola della licealità” prevista dalla riforma Moratti. Peraltro, è difficile intervenire in questo dibattito perché in questo momento, nella mia mente, si affacciano ben quattro modelli differenti di liceo, col rischio del disorientamento e della perdita della bussola. I quattro modelli di liceo, fra loro differenti, sono: il vecchio e “tradizionale liceo classico”, il “liceo della sperimentazione secondo l’ex-art.3” dei decreti delegati del 1974, che è stato realizzato in questa scuola dal lontano 1970 fino all’anno scolastico 1996/97 sconosciuto ai più e forse anche agli autori del saggio in discussione, l’attuale e nostro “liceo della scuola dell’autonomia” e, infine, quello “della liceità” relativo alla riforma Moratti che è di là da venire, perché le ultime notizie lo danno in esercizio non prima del 2008, salvo cambiamenti. Manifesto qui la mia critica circa lo stato della sperimentazione. Questi sono i fatti. E adesso veniamo alle opinioni.
Ho letto il libro. E’ un bel libro. Completo, organico e, a mio giudizio, efficace, anche se impregnato di tecnicismi alcune volte inutili. Non esito a definirlo da un lato “un inno alla scuola dell’autonomia” e dall’altra una melassa di retorica psico-socio-pedagogica, imbevuta di visioni post-moderne dell’educazione, costruito a mo’ di Bibbia dell’autonomia scolastica per giustificare l’idea della superiorità di questo modello di scuola sugli altri. Mi scuso se non sono della stessa idea degli Autori. Cercherò, molto modestamente, di giustificare la mia critica.
La scuola secondaria di secondo grado di oggi è profondamente diversa da quella che ha fornito la formazione culturale di base ai cittadini di questo paese prima degli anni ’80. Non si può effettuare una analisi seria dei mali dell’attuale scuola secondaria superiore se non si parte da questo realistico e oggettivo presupposto. Chi non è d’accordo nell’iniziare da questo dato, per favore, legga le indagini ISTAT, le statistiche che le istituzioni e gli organismi nazionali e internazionali preposti a questo scopo offrono nelle loro indagini specialistiche e i rapporti annuali delle università italiane, laddove si citano esplicitamente la pessima formazione di base delle nuove matricole universitarie italiane quando entrano al primo anno e l’altrettanta pessima competenza linguistica e comunicativa possedute dai medesimi studenti. Dall’analisi dei test di ingresso, ma anche dai giudizi sulla preparazione degli esaminandi ai primi appelli d’esame, fino addirittura all’analisi linguistica delle tesi di laurea alla fine del triennio universitario (si veda il caso del prof. Luca Serianni, Direttore del corso ordinario di Linguistica italiana nella facoltà di Lettere della “Sapienza” di Roma), emergono tutta una serie di indicatori (competenze linguistiche, conoscenze specifiche di base, abilità nella manipolazione degli oggetti culturali disciplinari, metodi e processi specifici delle discipline, incapacità a saper parlare convenientemente una lingua straniera, ecc…) che evidenziano la sostanziale ignoranza in cui si ritrovano questi studenti e che la scuola secondaria italiana non riesce a evitare sia in termini assoluti, sia relativamente alla scuola precedente agli anni ‘80. Dunque, questa scuola, cioè la scuola di oggi, non funziona e non concretizza quella formazione e quella educazione di base che dovrebbero stare a fondamento della preparazione dei giovani che si affacciano alla vita universitaria od occupazionale nelle moderne società post-industriali. La maggior parte degli studenti completano il quinquennio di studi secondari mancando sostanzialmente l’obiettivo ambizioso previsto da tutti i P.O.F. delle scuole d’Italia, sia sotto il profilo della completezza dei curricoli, sia in relazione alla significatività dei percorsi di studi, sia dal punto di vista dell’acquisizione efficace e non effimera delle procedure e dei metodi che dovrebbero essere loro forniti sia, infine, dal punto di vista della valutazione dell’efficacia dell’apprendimento. Molto brevemente si può dire che l’attuale scuola liceale, nonostante l’impegno di una parte degli operatori scolastici, non riesce più a garantire i livelli minimi di preparazione culturale di base, in grado di permettere ai giovani di affrontare le grandi sfide dell’Università o dell’inserimento nel mondo del lavoro. La ragione sta nel fatto che questi giovani non sono in grado di padroneggiare le conoscenze acquisite e non riescono a fare un uso adeguato delle competenze e delle capacità che invece la scuola precedente riusciva a far utilizzare bene agli studenti nel periodo precedente a quello attuale. Non sta a me, in questa sede, spiegare il perché di queste ragioni. Mi limito semplicemente a prenderne atto per fornire una mia personale e critica interpretazione dei mali che affliggono l’odierna scuola liceale, soprattutto laddove si richiede di riflettere in merito al rapporto tra nuova riforma e curricoli precedenti e, più specificamente, in relazione ai nodi concettuali che riguardano i nessi esistenti tra “riforma Moratti” da una parte e scuola dell’autonomia dall’altra, che è poi il motivo di fondo che giustifica questa riflessione. Quali sono le ragioni che mi inducono a ritenere, dopo ben sette anni di sperimentazione, che la scuola liceale dell’autonomia non va bene? Dal punto di vista generale le insufficienze vanno dal mancato interesse che non si riesce a far provare agli studenti verso i grandi temi culturali generali, sempre più ridotti all’osso e sempre meno considerati “cultura”, alla pessima loro capacità di rielaborazione. Si va dalla mediocre qualità e quantità di apprendimento dei “vecchi” saperi (nozionismo), alla insufficiente qualità delle vecchie e nuove competenze (capacità di rielaborazione). Si aggiungano anche le enormi difficoltà di comprensione che gli studenti incontrano quando devono interpretare un testo letterario, scientifico o artistico, la scarsità di padronanza dei metodi di apprendimento delle singole discipline, per non parlare dell’approccio superficiale e quasi mai approfondito inerente ai metodi e alle procedure relativi all’intero processo curricolare, che è assorbito dallo studente in modo sempre più vago e generico, per finire al fatto, unico e noto a tutti, che i nostri studenti non parlano una lingua straniera in modo adeguato come i loro coetanei europei e sono ignoranti in matematica, fisica e scienze. Cosa si vuole di più? Tutti questi sono indicatori di un malessere della scuola di oggi che è il frutto di scelte che hanno una loro doppia matrice: "interna" ed "esterna" alla scuola, ma entrambe riconducibili alla logica istituzionale. Nel primo caso mi riferisco a quei soggetti interni al sistema scolastico che fanno capo o ai potenti burocrati di livello centrale e periferico come Direttori generali, Ispettori ministeriali e Direttori generali regionali, nonché influenti ed autorevoli professori universitari. Nel secondo caso mi riferisco ai soggetti politici, parlamentari, responsabili scuola dei partiti e dei sindacati. Quando parlo di “melassa della retorica” dell’autonomia intendo sottolineare due aspetti negativi. Il primo riguarda il lessico e la struttura linguistica del testo. Molto pesante e di difficile lettura, a causa della contemporanea presenza di un numero esagerato di barbarismi che offendono il senso dell’equilibrio e il buon gusto linguistico e un altrettanto esagerato uso di neologismi alcune volte inopportuni. Mi è sembrato di capire che vi è in tutto questo una speciale forma di autocompiacimento della sintassi involuta che sembra rivolgersi solo agli addetti ai lavori. Il secondo aspetto riguarda la posizione manichea degli autori del saggio, che partono dal presupposto della distinzione radicale ed esasperata esistente tra la scuola del “programma istituzionale”, come viene chiamata dal Dubet la scuola liceale tradizionale, che è a loro giudizio una scuola inattuale, superata e fuori luogo oggi, perché basata sulla élite degli insegnanti e la scuola dell’autonomia, che è la scuola contemporanea e al passo coi tempi, chiamata “dell’organizzazione e della relazione”. Questa parola d’ordine, ancorché possieda una base teorico-sociologica veritiera, è inaccettabile dal punto di vista della concezione professionale che gli insegnanti hanno del loro lavoro, perché il nuovo modello di governance della scuola dell’autonomia contiene implicitamente una riduzione dell’autonomia e del potere degli insegnanti. Si sta operando, in modo strisciante e ingannevole, per trasformare il loro ruolo da “portatori” di cultura a “soldati” dei saperi minimi. L’autonomia assume il significato di una diminuzione del loro potere come professori, come esperti del processo formativo, spostando i poteri decisionali in modo sproporzionato e squilibrato dagli insegnanti alla dirigenza, senza che un progetto o un quadro normativo di riferimento politico parlamentare lo preveda in modo chiaro e preciso, con assunzione di responsabilità esplicita da parte di qualcuno. Il che è grave. Sulla pelle dei professori si sta sperimentando tutto un programma di scelte socio-psico-pedagogiche che stanno trasformando irreversibilmente il fare scuola così come è stato sempre concepito. Nell’attuale stagione di riforme, la professione dell’insegnante è sottoposta a un sistematico “impoverimento, massificazione e standardizzazione” mediante tecniche ordinamentali che sottopongono i docenti a “situazioni di stress e di sovraccarico mediante un continuo flusso di adempimenti di natura tecnico-procedurale”, al di là del tradizionale lavoro in aula. La verità è che la scuola dell’autonomia vuole cambiare completamente scenario al sistema educativo. Non più una scuola in grado di “trasformare la eterogeneità del mondo in un ordine riconosciuto solennemente, dove gli insegnanti erano mossi dalla vocazione e dal loro status professionale”. Non più una scuola dove si esaltino le diversità degli studenti, dove il merito è considerato obiettivo educativo, ma una scuola che le comprima e le riduca al minimo attraverso una organizzazione della didattica che appiattisca sempre verso il basso, che semplifichi, che banalizzi, che livelli e uniformi verso standard minimi. Si è passati pertanto, e senza accorgercene, da una scuola in cui si studiava seriamente un programma preciso e definito a una scuola che teorizza nuove forme di didattica che equivalgono a una diminuzione della qualità dell’insegnamento. Per la scuola dell’autonomia, poi, i docenti devono differenziarsi in una partizione di docenti esperti (collaboratori del dirigente) e un’altra di docenti “soldati”, cioè docenti che siano meri esecutori cui demandare il compito riduttivo e circoscritto di fornire i saperi minimi, organizzati sulla base delle esigenze della politica scolastica della scuola e che non debbano fare domande ma adeguarsi a disposizioni. A mio giudizio, si tratta di una concezione non ammissibile, perché schiaccia i suoi interventi verso il basso, concentrandosi solo verso l’aspetto quantitativo e tralasciando di intervenire verso i valori alti delle eccellenze. C’è una grande illusione in tutto questo. L’illusione che la trasformazione del ruolo del corpo docente in una nuova veste militarizzata e standardizzata, possa produrre maggiore efficacia negli interventi didattici ed educativi. Desidero chiarire ulteriormente questo passaggio che riguarda la partizione della carriera degli insegnanti. A questo proposito desidero ribadire il mio chiaro e netto disaccordo alla richiesta relativa alla trasformazione dei ruoli professionali degli insegnanti, laddove si invita l’Amministrazione scolastica a intervenire sul piano legislativo per produrre uno sdoppiamento della carriera dei docenti in una di tipo “professionale” e un’altra di tipo “manageriale”. La prima richiesta è avanzata per imporre agli insegnanti un non ben precisato “sviluppo di forme cooperative” riconducibili ai concetti di “comunità di pratiche”, perché allo stato attuale, gli insegnanti praticano, a loro dire, esageratamente e riduttivamente l’individualismo mentre sarebbe necessario adottare nuovi modelli emergenti di “comunitarismo”. La seconda richiesta viene presentata perché sono assenti dalla legislazione attuale attività e funzioni che con la scuola dell’autonomia diventano essenziali per l’economia del progetto che questa scuola persegue. Penso che alla base di tutto ci sia un colossale equivoco. Io credo che i sociologi hanno un’immagine dell’insegnante fuorviante, distorta e fuori della realtà, nel senso che essi credono che tutti gli insegnanti debbano svolgere lo stesso lavoro di metodo e di organizzazione, senza distinzione di ordini scolastici, di età degli studenti e di curricoli da sviluppare. In altre parole, i teorici della scuola dell’autonomia sono del parere che sarebbe necessario che tutti gli ordini scolastici facessero proprio il metodo di lavoro degli insegnanti della scuola elementare, fatto di partecipazione, di organizzazione del lavoro mediante gruppi di lavoro, di discussioni in pratiche comunitarie, di socializzazione delle conoscenze attraverso il metodo comunitario, ecc… Tutto ciò fa pensare da un lato a una grande confusione circa il lavoro che svolge il docente in una realtà scolastica complessa e variegata come quella di tipo liceale, e dall’altro che viene confermata l’idea che si vuole imporre un modello di figura di insegnante che in precedenza ho chiamato “soldato” dei saperi minimi, cioè di un mero esecutore di ordini, di compiti ben precisi, senza riconoscergli la capacità critica della professionalità che egli esplica ed esplicita nei suoi interventi didattici e psico-pedagogici. Questa è un’idea che collide con il dettato costituzionale che l’arte e l’insegnamento è libero e autonomo, ancorché si debba muovere nella specificità professionale. Insomma, si tratta in definitiva di uno iato tra insegnante impiegato e insegnante professionista. In merito, poi, al bisogno che la scuola dell’autonomia sente circa la presenza di figure docenti con profili differenti dall’insegnante vero e proprio, si può dire che di questa figura di “docente manager” che deve fare il collaboratore del dirigente per attività di coordinamento e di organizzazione non se ne sente proprio il bisogno per le seguenti ragioni. Non si deve confondere l’insegnare con l’organizzare e, soprattutto, non si devono mescolare funzioni differenti nelle stesse mani. Se si tratta di reperire un soggetto che faccia l’orario scolastico, che organizzi i corsi di recupero, che prepari i piani delle gite scolastiche, che stampi le statistiche delle assenze degli studenti, allora non si vede che cosa c’entrano le figure manageriali dei docenti. Queste attività possono essere benissimo svolte da figure ATA e non da docenti, come si è sempre fatto nelle scuole tradizionali e sempre con buoni risultati. E non ci sono mai stati problemi. Non si capisce perché l’Amministrazione deve far entrare nei ruoli una figura del genere, prelevata dal ruolo docente, che non abbia funzioni di insegnamento. L’insegnante è un’altra cosa. Egli ha a che vedere con la didattica, con la dimensione tecnico-professionale della sua disciplina. Egli è un cultore e un profondo conoscitore dei contenuti e dei valori della sua disciplina, che deve insegnare nel migliore dei modi, seguendo la specificità dei programmi della classe di abilitazione che lo riguarda, che possiede prerequisiti da docente che hanno a che vedere con una laurea, con una o più abilitazioni, con il possesso di una preparazione di base di tipo culturale e psico-pedagogico specifica dell’educazione e della docenza. Egli è l’unico soggetto competente a programmare interventi didattici ed educativi nel quadro generale delle scelte effettuate dal Collegio dei docenti. E’ un educatore, che media tra la dimensione valoriale e quella cognitiva della sua materia. Egli ha la funzione di istruire, formare ed educare. Non ha senso sprecare una figura del genere per chiudersi in un ufficio e disporre il quadro orario delle supplenze di ogni mattina!
E passiamo alla prospettiva futura della scuola dell’autonomia in relazione alla definitiva riorganizzazione del quadro strutturale scolastico mediante la “Riforma Moratti”. Chiediamoci a questo proposito cosa propone e, soprattutto, quale impulso crede di dare questo progetto governativo di riforma a un possibile cambiamento nella scuola di oggi, sull’onda di un quadro di indirizzo che è la scuola dell’autonomia. Diciamo brevemente che la “riforma Moratti” o “scuola della licealità”, è il completamento di un percorso di riforme più o meno striscianti avvenute in forma generalizzata molto prima dell’avvento dell’attuale Governo di centro-destra. Com’è noto, tutti i Governi della cosiddetta prima Repubblica furono incapaci di imporre in Parlamento l’idea di una riforma organica e completa della scuola secondaria di secondo grado, se mai l’hanno avuta. E dire che di tempo ce n’è stato. E’ dal lontano inizio degli anni ’70 che se ne parla. Questa riforma era già a quel tempo ineludibile, a maggior ragione lo è oggi, a causa in primo luogo delle sperimentazioni cosiddette “selvagge” che moltissime scuole hanno prodotto negli anni ’80 e ’90 con curricoli ingovernabili, sia sotto il profilo della scientificità e della validità pedagogica, sia dal punto di vista economico, sia infine per ragioni che riguardano le nuove teorie dell’apprendimento, anche in una prospettiva di “autoapprendimento” mediante le nuove tecnologie. In secondo luogo, con la definizione di politiche educative comuni nell’Unione europea i nostri esperti di politica scolastica hanno dovuto prendere atto delle impietose statistiche di insuccesso scolastico della nostra scuola. I Ministri della P.I. del tempo, in piena crisi politica ed economica e sotto l’impulso di questioni attinenti più agli interessi elettorali dei partiti che rappresentavano che a quelle psico-pedagogiche della scuola, ricorsero a tutta una serie di trucchi e mutamenti d’aspetto che possiamo chiamare “imbellettamenti”, che cominciarono a minare la stabilità dell’edificio della scuola gentiliana che aveva superato mezzo secolo di vita producendo una gran quantità di "fior di professionisti" che ancora adesso danno lustro alla società italiana nei più disparati campi del sapere. Tra i tanti possibili indicatori negativi ne cito solo uno. Mi riferisco all’eliminazione degli esami di riparazione e all’introduzione del debito scolastico, autentico demolitore della serietà degli studi di cui non se ne sentiva proprio il bisogno. Il cosiddetto “debito scolastico” e le modalità del suo recupero sono da ascrivere al populismo dei politici della scuola sia di centro-sinistra, sia di centro-destra. Molti docenti sono sfiduciati quando ricordano che in questi ultimi anni il “debito scolastico”, cioè la formalizzazione ufficiale della impreparazione di uno studente che ha luogo durante gli scrutini di fine anno, viene recuperato facilmente da molti studenti senza che questi avessero completamente colmato le lacune mostrate nell’anno precedente. E nella rara occasione che esso non venga recuperato, la situazione dello studente non cambia molto, perché le modalità di cancellazione delle insufficienze abbondano.
Ma veniamo allo schema di decreto legislativo, conosciuto con il nome più comune di “riforma Moratti”. Di che si tratta? La riforma dell’attuale Ministro della P.I. riguarda l’ultimo tassello necessario per la distruzione definitiva della serietà degli studi della scuola tradizionale. In una società come quella italiana, che è costretta a inseguire gli altri paesi europei e asiatici, sul piano della competitività, della ricerca, dello sviluppo e della innovazione, con la riforma Moratti si dà un definitivo colpo distruttivo alla formazione culturale e critica dei giovani, a causa dei seguenti motivi:
1. ponendo sullo stesso piano (“pari dignità”) l’istruzione e la formazione professionale si degrada verso il basso la qualità dell’offerta culturale liceale mentre i due canali formativi sono diversi;
2. chiamando liceo tecnologico gli attuali istituti tecnici e spesso anche professionali si concretizza vieppiù la dequalificazione e l’appiattimento verso il basso degli studi liceali;
3. costruendo un percorso quinquennale suddiviso su due bienni e su un ultimo anno si creano le premesse per disincentivare lo studio durante gli anni dispari, primo e terzo anno, a causa del fatto che durante questi anni il passaggio da un anno all’altro non è suscettibile di valutazione in negativo, perché la “non promozione” in questi anni non è ammessa;
4. il quinto anno assume, di fatto, una valenza di anno di studio slegato dalla logica della propedeuticità e, pertanto, si abbassa la qualità generale degli studi;
5. la certificazione dei crediti scolastici mediante la “certificazione delle competenze” produrrà una sovrapposizione di impegni del corpo insegnante che porterà prevedibilmente alla incompletezza dei curricoli. In una scuola come quella italiana, in cui agli studenti è permesso di occupare e devastare le scuole (vedi Liceo “Parini” di Milano), di evadere costantemente la frequenza alle lezioni mediante mille artifici più o meno legali (autogestioni e occupazioni comprese), si permetterebbe agli studenti di diminuire di fatto la presenza a scuola, ufficializzandola, ad appena il 75% delle lezioni. Dunque, non ci sarebbero i tempi necessari per uno sviluppo completo e significativo dei programmi;
6. con la creazione di insegnamenti nazionali, regionali e locali si creeranno delle pericolose gerarchie di qualità delle discipline e una inopportuna varietà di offerta formativa a macchia di leopardo. Addirittura, in certi casi, i corsi opzionali facoltativi sarebbero o frequentati con molta discontinuità oppure frequentati con molto affollamento in grado di diminuire la partecipazione e l’impegno nei normali corsi curricolari nazionali;
7. al quinto anno, la facoltatività e la personalizzazione del curricolo annuale sarebbero prese a pretesto per togliere discipline impegnative e di qualità, peggiorando di fatto il curricolo, perchè il favoreggiamento della scelta di discipline inutili e insignificanti dal punto di vista della coerenza del curricolo e della struttura interna ne minerà l’efficacia formativa;
8. non si comprende con quale logica si sono creati orari annuali che prevedono al primo biennio 27+3 obbligatori, al secondo biennio 28+2 con altre 3 ore possibili di discipline opzionali facoltative dilatando l’orario settimanale a ben 33 ore. All’ultimo anno, poi, soltanto 25+3 obbligatorie (che sono poche) e 2 opzionali facoltative, quando si sa che l’ultimo anno è quello più importante per la significatività della conclusione del curricolo e per la validità delle proposte culturali delle discipline, attraverso le quali si dovrebbero conseguire quegli obiettivi di più forte e ampia significatività pedagogico-nozionistica (capacità critica, competenza nel dominare i quadri conoscitivi culturali, conoscenza organica e sistemica, ecc…);
9. all’art. 12 si richiama il fatto che “il perseguimento delle finalità dei licei è affidato anche attraverso la personalizzazione dei piani di studio”. Questo, in altre parole, significa che in certe scuole (molte) si personalizzerà al ribasso e in altre (poche) verso l’alto, con la conseguenza dell’appiattimento generalizzato verso il basso;
10. ma la ciliegina migliore si trova nello stesso art.12, al comma 2, laddove si dice che fra tutti i docenti della classe ce ne sarà uno che, parodiando una celebre opera di George Orwell, La fattoria degli animali, “sarà più uguale degli altri”. Egli si chiamerà tutor e avrà il potere di decidere la personalizzazione del curricolo dello studente: come dire “la scuola del fai da te”. Non voglio minimamente pensare a cosa potrebbe portare nelle scuole un simile potere dato nelle mani di un particolare insegnante più uguale degli altri;
11. per ultimo, nella valutazione, laddove si volesse insistere a non ammettere uno studente per il secondo anno consecutivo alla classe successiva si dice, con una prosa degna del più inaccettabile terrorismo psicologico, che “la non ammissione […] può essere disposta solo per gravi lacune, formative o comportamentali, con provvedimenti motivati”. E si sa se è necessario motivare esageratamente, magari in prospettiva giuridica e di diritto, le sentenze, allora queste ultime non verranno mai prese;
12. l'introduzione del “portfolio delle competenze individuali” di ciascun alunno introduce un rischioso problema di gestibilità sia sotto il profilo dei contenuti (chi, che cosa), sia dal punto di vista materiale (quanto, di che cosa);
13. taccio, per carità di patria, sulla conferma dello scandalo della composizione delle commissioni di esami di stato, e del senso da dare al suo lavoro dopo che la stessa commissione come Consiglio di classe ha dovuto ammettere tutti i candidati appena quindici giorni prima.
14. last but not least, risulta poi che, dal punto di vista delle risorse professionali del personale docente, la prospettiva per gli anni a venire è addirittura ancora più preoccupante, per il semplice motivo che tutte le sigle sindacali chiedono al governo che l’attuale bozza del decreto legislativo contenga alla fine una chiara e concreta assunzione di responsabilità relativa non solo alla unitarietà e pari dignità tra i due sistemi di istruzione e formazione professionale del secondo ciclo, ma anche che il personale docente possa usufruire della mobilità all’interno dei due canali. Questo significa che rischiamo di trovarci, per motivi che nulla hanno a che vedere con la dimensione pedagogica e culturale, nella allarmante prospettiva di vedere transitare gli insegnanti dal professionale al liceo classico e, viceversa, con tutti i rischi che questa logica, a mio giudizio perversa, porterebbe all’impianto istituzionale dei licei. Risulta, peraltro, paradossale la questione che questa logica della unitarietà dei due canali, che fu negli anni ’70 e ’80 un cavallo di battaglia del sindacalismo di sinistra, venga oggi perseguita, con ostinazione e tenacia, da un governo di centro-destra.
E passiamo adesso alla critica più grave che mi sento di fare alla scuola dell’autonomia mediante una breve riflessione relativa all’indirizzo scientifico di questa scuola, affrontando le critiche che sembrano plausibili e conseguenti nel momento in cui si tocca l’insegnamento delle discipline scientifiche. Non a caso nel libro del prof. Benadusi, di questo gravissimo fatto non si parla quasi mai, e sono assenti riflessioni e considerazioni critiche in merito ai nessi tra ignoranza planetaria di cultura scientifica e scuola dell’autonomia. Chi parla è responsabile regionale del Progetto nazionale delle Olimpiadi della fisica, ed è un osservatore privilegiato per giudicare dello scarso grado di preparazione degli studenti romani nel campo delle scienze fisiche. I fatti sono noti. L’apprendimento scientifico degli studenti in Italia è diventato sempre più di basso profilo. L’apprendimento della fisica in particolare, come sottoinsieme di quello più generale della scienza, è ancora più scadente. Come mai? Forse è arrivato il momento di dire qualcosa di diverso dalle solite «cose lunghe e noiose» che vengono dette normalmente in questi casi. Il giudizio negativo che riguarda l’insegnamento delle discipline scientifiche in Italia non viene dato sulla base di presunte mie sensazioni o antipatie, ma emerge costantemente da tutti gli studi e da tutte le statistiche che le istituzioni e gli organismi nazionali e internazionali preposti a questo scopo offrono nelle loro indagini specialistiche. Non si può fare una analisi seria delle cause della crisi dell’insegnamento e, quindi, dell’apprendimento delle scienze sperimentali nella scuola secondaria superiore se non si parte da un semplice dato: in Italia si è finora proposto un modello di insegnamento scientifico di basso livello, sbagliato, inefficace e non in grado di assicurare neanche i livelli minimi di conoscenze, competenze e capacità che dovrebbero far parte del bagaglio culturale dei giovani che terminano il curricolo secondario. La scuola dell’autonomia ne amplifica i difetti. Chi non crede alle cose dette circa il penoso stato dei corsi di insegnamento di scienze empiriche impartiti nella maggioranza dei licei del paese, per favore, vada a parlare con i docenti universitari degli atenei italiani che insegnano nelle facoltà scientifiche, soprattutto quelli che hanno a che vedere con la preparazione scientifica di fisica delle matricole universitarie. Ne sentirà di tutti i colori. Non per niente il Ministero della Ricerca scientifica, per la prima volta nella storia della Repubblica, ha avvertito la necessità di dare incentivi economici a tutti quegli studenti che si iscrivono ai corsi universitari di Fisica, Matematica e Chimica. Aggiungo, purtroppo, che più passa il tempo e più la situazione peggiora, nel senso che il panorama relativo alle conoscenze di base possedute da una matricola universitaria nel campo della fisica sono semplicemente pietose. Eppure il bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione è stratosferico! La ragione è che ci sono pochi studenti che si iscrivono alle facoltà scientifiche dell’Università all’altezza di seguire la professione dello scienziato. Con parole un po’ ironiche si può dire che abbiamo un fisico per ogni partecipante alle selezioni del “Grande fratello”. E ci sono pochi studenti perché il liceo attuale non è in grado di prepararli in modo adeguato. Di anno in anno, questi studenti, già pochi per ragioni di incapacità a seguire i corsi, diminuiscono ulteriormente. Si è già allo stato di “non ritorno”. Questo stato si raggiunge quando il numero di studenti che si iscrivono ai corsi universitari è inferiore a una soglia minima, ampiamente superata da qualche anno. Affermo che la colpa di tutto questo è da ascrivere principalmente a due categorie di soggetti: alle pseudo riforme ministeriali e alle scuole, compresa quella dell’autonomia. Le ragioni per le quali situo al primo punto le riforme riguardano il fatto che mentre per le scuole la responsabilità è indiretta e mediata e, comunque, riguarda la complessità e le inefficienze del sistema scolastico locale (poca preparazione ed esperienza degli insegnanti di questa disciplina che non maneggiano con adeguatezza gli aspetti empirici e i suoi peculiari tratti epistemologici, scarsezza di risorse laboratoriali, idea generalizzata della inutilità di questo sapere, emarginazione di tutto ciò che è tecnologia, ecc…), per le riforme si tratta di una specifica responsabilità personale dei Ministri della P.I. e, dunque, dei governi, che nel nostro caso riguardano sia quelli passati di centrosinistra, sia quello attuale di centro-destra, nessuno escluso.
Non c’è dubbio che le scuole secondarie, nella logica attuale della contrapposizione critica “Dirigente Scolastico-Collegio Docenti”, hanno grandi responsabilità. Molte sono le negligenze che si possono imputare ai soggetti che la compongono. Tuttavia, non è mia intenzione soffermarmi sui danni, perché di questo si tratta, che questi due specifici soggetti hanno dato vita negli ultimi anni. In ogni caso si tratta di soggetti che hanno responsabilità di tipo differente da quella politica dei Ministri, i quali hanno preso la pessima abitudine di proporre, anzi di imporre, disegni legislativi come quello in discussione al Parlamento, senza minimamente prendere in considerazioni suggerimenti e critiche proposte per esempio dalle Associazioni degli insegnanti. Esiste, a tal proposito, un documento, chiamato "Pareri e commenti delle associazioni disciplinari sui documenti ministeriali per i cicli dell'istruzione”, scritto da ben 13 Associazioni di tutti i saperi disciplinari, che non so quanti conoscono. Le Autorità scolastiche a tutti i livelli (Governo, Ministro della P.I., Parlamento, Direttori Generali, Ispettori ministeriali, Direttori Regionali), viceversa, hanno una responsabilità personale, tipica delle colpe soggettive, afferente alla specificità professionale che attiene alla loro sfera culturale e professionale individuale. E questo è grave. Molto grave. Un esempio? La sottovalutazione dell’importanza, nella formazione scientifica, del laboratorio e il suo uso nello sviluppo delle capacità degli studenti. Mi si spieghi che senso e valore può essere dato dal punto di vista epistemologico, tecnico e pedagogico a un curricolo di fisica, di chimica o di scienze biologiche e naturali senza un valido ed efficace quadro conoscitivo-metodologico acquisito in un laboratorio adeguatamente attrezzato. Questa sottovalutazione è oggettiva, esplicita e trasversale e riguarda forze politiche e autorità scolastiche, e a nulla valgono i continui appelli delle Associazioni scientifiche affinché il malcostume e l’abitudine cambino. La sordità di questi soggetti istituzionali è “assordante” e il nostro liceo, come scuola dell’autonomia, non ne è immune. Dunque, ci sono errori, trascuratezze, mancanza di visione strategica e sistemica, presuntuosità e sottovalutazioni che sono il frutto di una visione politica che mette le decisioni al servizio dei propri obiettivi e in certi casi dei propri interessi. In ogni caso, queste scelte infelici portano il sistema scuola alla deriva, al collasso, almeno dal punto di vista della formazione scientifica, ma non credo che negli altri indirizzi sia un tutto fiorire di tulipani e rose. Queste limitatezze aumentano la indifferenza verso i valori dell’insegnamento e dell’apprendimento dei soggetti che frequentano la scuola e portano al disinteresse verso i problemi veri della didattica che, nell’ottica della scuola dell’autonomia, viene sottostimata e spesso conta poco. Il sacrificare la didattica per privilegiare l’organizzazione comporta questo iato: privilegio dell’organizzazione e della autoreferenzialità da una parte e disinteresse e indifferenza verso la comunicazione pedagogica dall’altra. E’ questa la critica più seria che si può muovere alla scuola dell’Autonomia. Peraltro, questa critica non è nuova. Già alcuni anni fa Dubet osservò che il declino, a suo parere, «della scuola del programma istituzionale si basava su un codice implicito il quale aveva la virtù di fissare uno standard universalmente accettato. Il declino di questa forma di socializzazione scolastica ha come conseguenza una “esplosione” delle contraddizioni tra i principi che organizzano l’azione pedagogica e l’organizzazione scolastica. Da qui la rottura di un equilibrio e l’avvio di un processo di progressiva frammentazione». Da questo punto di vista siamo del parere che la situazione si può commentare con le parole del prof. Benadusi, che “l’autonomia è in effetti diventata un grande attrattore retorico di tutta la tematica della riforma”.
Prima di arrivare alla conclusione, mi sembra importante chiarire una possibile forma di incomprensione. Si tratta del fatto che a nessuno sfuggono le ragioni e le motivazioni, giustificate da una lunga catena di interventi di esperti nazionali e internazionali e di tutta una vasta letteratura sociologica e pedagogica, a favore dell’importanza della scuola dell’Autonomia e/o della riforma Moratti nella società contemporanea. Sono dell’idea che il privilegiare il “tanto peggio, tanto meglio” non è la soluzione dei mali della scuola italiana e non risolve alcun problema di quelli lamentati sopra. Dunque, ben vengano sia la scuola dell’Autonomia, sia la scuola della licealità con i loro alti portati organizzativi. Quello sul quale non sono assolutamente d’accordo è che, a mio parere, manca in questo paese, che si è dovuto fare carico del servizio pubblico dell’istruzione di massa, una politica scolastica in grado di perseguire una “differenziazione della didattica”. In altre parole, mancano nel paese le scuole secondarie di eccellenza, necessarie, indispensabili, utilissime, che sappiano premiare i talenti e che e che sappiano dare loro la possibilità di avere maggiori opportunità. Sono assenti perché non previste e di difficile inserzione sia nella scuola dell’autonomia, sia nella scuola della licealità, perché in quelle scuole si dovrebbero sviluppare curricoli di alta valenza formativa per giovani desiderosi di emergere dallo squallore e dalla mediocrità della scuola statale attuale, compresa quella dell’autonomia, che assomigliano sempre di più alle scuole statunitensi del Bronx, che tanta letteratura cinematografica ha sapientemente messo alla berlina come scuola “delle insufficienze” e sempre meno al tenore degli studi offerto dalla scuola in cui operava il modello cosiddetto “vetero-professionale” (definizione dispregiativa data a pag. 71 del saggio di Benadusi). Dunque, la scuola dell’Autonomia, o quella della licealità, mi possono stare bene perché hanno in loro la possibilità di sviluppare curricoli semplici, ridotti, minimi, primari e, tutto sommato, equilibrati nella loro essenzialità. Ma a questi curricoli non si può chiedere altro. Essi non sono in grado di dare alcuna preparazione di alto profilo, perché non posseggono le caratteristiche della continuità, dell’impegno, dell’approfondimento, della efficacia e dello sviluppo del merito, perché non riescono a produrre una trasmissione di saperi forti, che sono poi i soli criteri per lo sviluppo di una scuola veramente all’altezza delle grandi sfide di cui il Paese ha bisogno.
Una conclusione, su tutte quelle possibili, emerge nella sua drammatica e preoccupante conseguenza. Se le cose stanno così, e non si cambia, la società italiana è condannata a una lenta e progressiva deriva, che porterà il paese al declino tecnologico e scientifico, verso un sottosviluppo post-industriale. Una scuola sempre più dequalificata sul piano della cultura scientifica, ma anche umanistica e delle lingue, farà emergere sempre più, e in maniera palese, sia la marginalizzazione dell’Italianità nel mondo e soprattutto in Europa, sia la mancanza di futuri ricercatori intelligenti e di bravi giovani interessati alla scienza, all’arte, alle lettere. Senza ricerca scientifica, senza persone che si interessano di scienza, che si dedichino nel campo della ricerca e dello sviluppo tecnologico, il paese diventerà sempre più povero di idee, di brevetti, di know how e di persone adeguate a comprendere il nuovo, comprese le nuove tecnologie che incalzano con sempre maggiore rapidità. Di fronte alla disarmante incapacità della politica italiana a seguire l’attuale sviluppo, imposto da una globalizzazione mondiale, spesso caotica e multiforme, è necessaria, sul piano legislativo, un’azione sistematica delle forze politiche che dovrebbero trovare gli strumenti legislativi per aiutare i giovani a costruire delle personalità ricche di metodi di studio, di abilità logico-comunicative, di quadri culturali di riferimento ampi e trasversali, in maniera tale da contribuire a potenziare l’autonomo sviluppo delle capacità critiche, le sole in grado di aiutare lo sviluppo culturale, economico e finanziario del paese. Si potrebbe ipotizzare un cambiamento forzato di rotta solo nell’ipotesi di un intervento legislativo robusto e manifestamente adeguato che andasse nella direzione di una rivalutazione dell’insegnamento scientifico. Ma chi dovrebbe farlo? Tutti i più importanti responsabili politici del settore scuola dei partiti, siano essi responsabili di centro destra e di centrosinistra, nazionali, regionali, provinciali e comunali, assessori e responsabili scuola, sono collusi con il potere fine a se stesso, autoreferenziale, e con la complicità dei sindacati scuola di ogni colore e orientamento politico, considerati dal Benadusi, la più potente “forza di inerzia”, vivono la prassi dell’immobilismo nella società. E, dunque, cosa si potrebbe fare? Il Presidente della Repubblica francese, Charles de Gaulle, alcuni decenni fa quand’era in vita, informato dal suo Ministro dell’Educazione che c’era la possibilità di migliorare l’efficacia del sistema educativo francese solo se si fosse riuscito a convincere molti dei soggetti sopra nominati a collaborare attivamente, per niente convinto della proposta, disse in forma lapidaria: “Oui. Oui. Vaste programme”! La citazione ha solo la pretesa di mettere in evidenza la difficoltà di vedere personalità che hanno potere e forza di osare, per cambiare in maniera efficace, non strumentale.
Mi fermo qui. Prima però è necessario affermare che la scuola liceale che il paese ha visto nella sua lunga storia dalla Riforma Gentile a ieri, non certo a oggi, sia essa la odierna scuola tradizionale oppure quella dell’Autonomia, è una scuola costellata da impegno, serietà, dedizione e soprattutto dalla eliminazione di “distrattori e di distrazioni”. Con i vari patentini, con l’aumento degli aspetti burocratici, con la scuola del tipo “fai da te”, con i registri pieni di indicatori pedagogici, con la scuola delle discipline opzionali obbligatorie e facoltative (altro neologismo tanto caro ai pedagogisti populisti ministeriali odierni), e, soprattutto, con la scuola che non prevede serie e rigorose verifiche, sviluppate con prove di carattere nazionale e non con la esasperata personalizzazione dei “test con le crocette” e delle verifiche facili e a buon prezzo, non si fa l’interesse della scuola per i giovani del futuro. Semplicemente li si prende in giro.

martedì 15 marzo 2005

Candidature e giustificazioni.

«Ahimè, alle politiche del 2006 sarò costretto a ripresentare la mia candidatura per avere bene operato». Dunque, il Presidente Silvio Berlusconi dice di se stesso che ha operato bene, che lui è bravo, anzi è il più bravo, e che dunque ‘si vede costretto’ – suo malgrado – di ripresentarsi candidato alla Presidenza del Consiglio. Ammazza quant’è modesto il Silvio nazionale. Ma Sua Emittenza ci scusi per la curiosità, ma chi gliel’ha ordinato, il medico? Pensate se alle prossime elezioni la sua coalizione perderà cosa sarà costretto a provare. Sicuramente avrà bisogno del medico. Ma questa volta le ricette prevederanno medicine contro la depressione. Altro che contratto con gli italiani!

lunedì 14 marzo 2005

Seminario di autoaggiornamento: "La nuova professionalità docente".

Riceviamo e pubblichiamo volentieri il contributo inviatoci.

Abstract



"Guidoni/60". "Realizzazione di un impianto fotovoltaico con cellule al silicio monocristallino con pannelli piani e/o concentratori sul terrazzo astronomico". "Sportello didattico". "Nomadi". "Il territorio della IX Circoscrizione". "Centro di libera informazione e documentazione sui rapporti tra i popoli". "Framework-Portfolio"... Per gli studenti del liceo c'è la difficoltà della scelta. Una iper abbondanza di corsi, corsetti, corsini, corsoni; insomma, come si suol dire in simili circostanze, ce n'è per tutti i gusti. Si tratta della pietanza centrale del menù che la scuola dell'Autonomia ci propone. Una scuola basata su Progetti.
Abbiamo risolto finalmente tutti i problemi della crisi della scuola e nella scuola? Abbiamo finalmente trovato la panacea per tutti i mali? O, più modestamente, si tratta di contorni, buoni, alcuni ottimi, ma sempre contorni?
E' questo il rebus da sciogliere. Di una cosa però sono certo: che non saranno certamente i progetti da soli a sciogliere i nodi fondamentali della nuova scuola. I nodi fondamentali della nuova, o nuovissima, scuola che dir si vuole li potrà iniziare a sciogliere il Signor Ministro quando si convincerà che i problemi della scuola non potranno mai essere risolti senza una seria politica scolastica che ridia entusiasmo agli operatori che in essa lavorano. Cioè, quando avrà preso coscienza che è necessario mettere in atto alcuni strumenti normativo-giuridico-finanziari volti all'eliminazione di due aspetti negativi: da un lato l'ambiguità - per non parlare delle contraddizioni - che implicano l'accettazione del concetto di P.O.F. e dall'altro, quelle che io chiamo, le vischiosità della scuola dell'Autonomia.
Le ambiguità hanno a che vedere con le scelte di fondo di politica scolastica inerenti alle finalità della scuola in questo Paese e, pertanto, sono necessarie chiarezza e sincerità sia sulle scelte che riguardano la politica del personale docente della scuola, sia sulle questioni che attengono ai “saperi di base” e alle modalità di aggregazione di questi saperi da parte non solo dell’intera collettività scolastica, ma anche del Paese tutto, altrimenti diventa manifesto che la Riforma è cosa decisa nel chiuso di qualche stanza di partito di maggioranza con la complicità furbesca di qualche super-burocrate anche super-esperto.
Il problema delle vischiosità, invece, riguarda gli interventi tecnici necessari per eliminare alcuni aspetti negativi che impediscono di far decollare con scioltezza il lavoro di insegnamento-apprendimento nella scuola italiana della modularità.
L’intervento che desidero effettuare al Collegio dei Docenti, durante la due giorni di lavori, mira a mettere a fuoco queste tematiche nella consapevolezza che il metodo galileiano del confronto e della critica possa contribuire a migliorare la conoscenza dei problemi e delle implicazioni della Riforma della scuola dell’Autonomia.


Il quadro normativo e organizzativo


In qualità di docente che crede nella validità del processo riformatore in atto nel mondo della scuola intervengo con piacere ai lavori del Seminario.
Inizio questa mia comunicazione osservando che viviamo tempi in tumultuosa trasformazione con forti interventi di innovazione in tutti i settori che riguardano la nostra esistenza. Ci troviamo cioè nel bel mezzo di un uragano di nuove idee, di diversificazione di ruoli, di trasformazione di funzioni, di sfide che producono in tutti noi inquietudine e smarrimento. Si tratta di cambiamenti che non possono essere considerati congiunturali ma sono chiaramente strutturali, irreversibili e, aggiungo, ineludibili. Per certi versi mi ricordano l’inizio del secolo scorso, quando nei primi anni del Novecento la scienza fu costretta a virare profondamente dalla linea maestra che era stata indicata con tanto ottimismo dalle grandi figure della scienza come Newton e Maxwell. Il cambiamento fu realizzato, com’è noto, attraverso le novità concettuali della Meccanica Quantistica e della Teoria della Relatività che rivoluzionarono profondamente il pensiero scientifico facendo perdere di senso le idee paradigmatiche precedentemente decise come direttrici di ricerca e di studio. A cento anni di distanza si sta riproponendo lo stesso micidiale miscuglio di effetti. Si va dal disorientamento alla confusione, dalla perdita di identità alla frustrazione e si arriva, in casi limiti, anche ad alcune forme di rifiuto che investono la nostra stessa attività professionale producendo il desiderio di abbandonare la scuola e ritirarsi a vita privata. Io, per esempio, non sono riuscito ancora ad assorbire per intero le novità di questi ultimi anni e, nonostante segua con interesse e partecipazione i fatti recenti mi sento ancora inadeguato e incapace di comprendere per intero l’importanza del “nuovo”. Le cose che dirò nella mia comunicazione sono pertanto il frutto di questi miei pensieri e delle mie riflessioni, in parte disordinati e in parte non originali, che riflettono tuttavia e per intero le mie idee.
Inizierò permettendomi di rilevare l’esistenza di fattori di “vischiosità” che introducono alcune note negative in merito all’efficacia e alla significatività della nuova scuola dell’Autonomia.
Ho riflettuto un po’ sul significato della riforma della scuola dell’Autonomia e sono arrivato alla conclusione che una possibile interpretazione del senso della riforma è che la si deve considerare nel suo insieme, in riferimento agli altri cicli scolastici, perché si tratta di una catena di maglie interdipendenti, non separabili tra loro, che fanno emergere un quadro orientativo comune.
Riprendo una osservazione già effettuata da altri su questo tema che si riferisce al fatto che il quadro della riforma, osservato nel suo insieme, appare ispirato all’idea che il mutamento e l’innovazione impongono delle rinunce nei confronti della qualità a favore della quantità. “Dopo aver preso atto che il numero dei diplomati e laureati in Italia, rispetto al resto d’Europa, è terribilmente basso si è deciso di aumentarne – a tutti i costi – il loro numero. Appare questa, forse, la filosofia ispiratrice del progetto, ché nel mentre persegue un nobile e giusto obiettivo è costretta a rinunce non indifferenti. Il risultato che essa ottiene è l’adattamento dell’ordinamento scolastico a complesse formule di contrazione delle pretese e, purtroppo, a un probabile abbassamento della qualità e del livello culturale del sistema educativo” . Intendiamoci, l’intento e l’architettura della scuola dell’Autonomia sembrano validi e adeguati. Manca tuttavia qualcosa che permetta di andare fino in fondo al cambiamento. Che sia in atto un pericoloso abbassamento della qualità dell’istruzione secondaria superiore lo possono evidenziare i seguenti indizi che riguardano:
• la riduzione di un anno del ciclo di studi;
• la diminuzione delle ore settimanali di lezione;
• l’innalzamento dell’obbligo scolastico di appena un anno senza che sia stata organizzata una convincente formazione professionale;
• l’assottigliamento del monte ore annuale di alcune discipline che impedisce ai docenti che le insegnano quella serenità di azioni didattiche ed educative di lungo respiro (l’ozium educativo) in grado di lasciare un’impronta duratura e significativa sulla formazione della personalità degli allievi;
• la consistente delega in bianco al Ministro per quanto riguarda contenuti, metodi, discipline, struttura oraria, ecc.
Tutto ciò comporta, come è facile prevedere e nonostante il considerevole impegno dei docenti, il forte rischio che il biennio liceale sia ridotto a un inefficace e poco concludente biennio di sperimentazione livellato verso il basso su attività che tentino di ridurre le carenze prodotte dal ciclo precedente. Per fare un esempio banale che possa dare un’idea, anche se approssimativa, di quello che potrebbe avvenire basti pensare alla riduzione della storia antica o della geometria razionale o delle scienze sperimentali a un approssimativo riassunto. Non è necessario essere delle Cassandre per prevedere, a regime, la presenza di candidati ai nuovi esami di stato in difficoltà sul piano del possesso di alcune capacità intellettuali e del pensiero divergente, come quelle relative alla rielaborazione critica dei temi fondamentali delle diverse discipline e al possesso di metodologie di indagine proprie degli ambiti disciplinari, impossibili da sviluppare adeguatamente nel poco tempo a disposizione e con la filosofia modulare dell’insegnamento, di tipo anglosassone, che il Ministero sembra avere sposato.
La conclusione che si può trarre dalle cose dette è che questa nuova “filosofia pedagogica”, nonostante i buoni propositi del nuovo esame di stato e dell’aggiornamento “televisivo-satellitare”, comporterà molto probabilmente un abbassamento della preparazione dei diplomati anche se sul piano quantitativo essi saranno percentualmente molto più numerosi di prima.
Mi rendo conto che questo fatto non può essere attribuito esclusivamente alla nuova scuola. Allo stato attuale delle cose tuttavia è indiscutibile un dato che riguarda l’insegnamento di tutte le discipline: s'insegna molto e viene appreso poco. La scommessa che la scuola dell’autonomia ha fatto riguarda il come fare in modo che ciò che viene trasferito diventi effettivamente strumento operativo per accrescimento culturale dello “studente-cittadino”.
Non sono in grado in questa sede di dare suggerimenti in merito all’architettura che dovrebbe avere il nuovo sistema riformatore per risolvere i problemi testè lamentati. Né spetta certo a me il compito di sciogliere i nodi di queste ambiguità. Mi fermo più modestamente a rilevare alcuni dei più importanti aspetti negativi della nuova scuola dell’Autonomia, non prima di essermi soffermato su un’introduzione che ritengo significativa.
Intanto, non si può non rimanere sorpresi dal colossale e rivoluzionario impianto innovatore messo in moto dal Ministero. La mia sorpresa è duplice. Da un lato rilevo certamente la coerenza del progetto, l’equilibrio e anche la solidità della struttura riformatrice. Dall’altra, noto la ricchezza di giustificazioni e di spiegazioni anche di tipo epistemologico, oltre che culturale-pedagogico. Non c’è che dire, si tratta di un progetto dall’architettura imponente, il primo dopo la riforma Gentile. Peccato che rimanga un’ambiguità di fondo che se non verrà risolta rischia di compromettere il successo di tutto lo sforzo messo in opera. Vediamo di che si tratta.
I. In primo luogo mi sembra particolarmente negativo l’atteggiamento di sottovalutazione dei problemi oggi esistenti e, fatto più grave, trovo sconvenienti le esagerate dichiarazioni di ottimismo dei più. Questo naturalmente non significa che deve essere obbligatorio il pessimismo ma mi sembra doveroso ricordare che il successo di una scuola passa innanzitutto attraverso l’accettazione incondizionata della critica intesa come “capacità metodologica” di individuare gli aspetti meno adeguati di una proposta per permettere di operare per una sua trasformazione.
La scuola dell’Autonomia dovrebbe fare tesoro della metodologia d’indagine suggerita dal metodo galileiano di tipo sperimentale. In questi tre anni di sperimentazione, infatti, noi operatori scolastici, operando in condizioni di grande difficoltà e con pochi strumenti, abbiamo maturato la convinzione dell’inadeguatezza e delle limitazioni di alcuni aspetti dell’innovazione curriculare.
Io credo che nella logica progettuale della scuola dell’Autonomia sarebbe un errore minimizzare gli aspetti negativi perché, a mio parere, anche pochi problemi non adeguatamente affrontati e risolti possono da soli togliere visibilità e concretezza al nostro lavoro di educatori, trasformando un progetto forte ed efficace sul piano della innovazione e della robustezza dei pilastri educativo-curriculari in una proposta debole, senza sbocchi e mal vista da molti.
II. Gli elementi di debolezza del progetto che mi costringono a dare un giudizio parzialmente negativo dell’attuale sperimentazione hanno a che vedere con un aspetto generale sintetizzabile nella considerazione che finché si riterrà che l'insegnamento sia solo un trasferimento quantitativo di conoscenze, si farà molta fatica ad insegnare e resterà molto poco allo studente. Occorre pensare all'insegnamento come a un processo interattivo e dinamico che guidi e aiuti lo studente a costruire da sé le conoscenze e a rielaborarle in modo autonomo. Se ciò non è stato finora possibile è perché vi sono tante, troppe vischiosità, in parte dovute ai seguenti fattori:
1. le ambiguità delle compresenze;
2. l’insufficienza del monte ore di alcune discipline;
3. l’orientamento incompleto e incompreso;
4. il problema della modularità e delle verifiche;
5. l’insufficiente sviluppo della cultura di rete;
6. l’assenza di una banca dei moduli e di proposte concrete di verifica e di valutazione;
7. l’incompletezza del processo di consolidamento organizzativo del liceo;
8. il problema della formazione e dell’aggiornamento dei docenti;
9. la mancanza di un reale e concreto meccanismo di rivalutazione delle eccellenze.
Come si vede esistono molti problemi che allo stato attuale delle cose non sembrano risolvibili attraverso semplici provvedimenti verbali. Entrerò adesso nel merito di alcune di queste tematiche. Prima però un’osservazione. Quello che rende poco efficace il lavoro di insegnamento-apprendimento nella realtà quotidiana è la limitata collaborazione che esiste tra i suoi componenti. Le compresenze e la maggiore attenzione ai problemi della comunicazione e dell’educazione linguistica (si veda il documento dei 40 Saggi) come elementi di successo e di visibilità rispetto all'utenza sono una delle positive risposte che possono migliorare l’apprendimento. Tuttavia non bastano, perché esse sono delle risposte parziali al problema più generale dell’educazione al metodo, al lavoro di gruppo, alla condivisione dell’attività didattica, alla progettazione comune del lavoro, allo spirito della collegialità. La scuola italiana si è sempre caratterizzata, purtroppo, per l’eccessivo ed esasperato individualismo dell’insegnamento esercitato da qualche bravo e isolato docente che si rendeva protagonista in proprio (nelle famose sezioni A) di buona parte dell’intero processo educativo. Oggi non è più possibile tutto questo. In una società impostata sulla globalizzazione, sull’introduzione delle nuove tecnologie che permettono nuove forme di comunicazione a più livelli, sull’interazione collegiale dei membri di una istituzione, sulla necessità di nuove figure scolastiche, siano essi appartenenti a un’azienda, a una società o a una scuola (magari costituita su più plessi scolastici) che lavorano a distanza di molti chilometri dalla sede centrale, il “lavoro collaborativo” è fondamentale per la sopravvivenza dell’istituzione stessa. Acquista pertanto vitale importanza il lavoro di gruppo - condizione prioritaria per stabilire un clima organizzativo che esalti l'interazione positiva fra i docenti e valorizzi tutte le competenze presenti all'interno della scuola - in cui i soggetti dell’insegnamento imparino a collaborare in modo reale, efficace, pratico e in definitiva, abituale. Da questo punto di vista le “classi aperte”, lo “scambio di docenti” nelle classi, le “compresenze” sono tutti aspetti positivi che vanno nella direzione giusta. Ma ancora non bastano.
III. Ciò che è vitale riguarda la accettazione di un omogeneo ed equilibrato P.O.F., un sillabo comune, equilibrato negli assi culturali, non pretenzioso, che proponga dei saperi di base che siano interiorizzati e fatti propri dall’intera comunità scolastica, che vengano pubblicizzati da una vasta campagna di opinione sia a livello di scuola, sia a livello più ampio di territorio. Quello che io chiamo sillabo non è la elencazione acritica di una serie di fatti e nozioni che devono essere proposti agli allievi per essere appresi. Questo sillabo comune deve individuare in modo chiaro ed esplicito "le conoscenze fondamentali per l'apprendimento dei giovani nella scuola dei prossimi anni”, e "i contenuti essenziali per la formazione di base" e deve definire quei saperi in generale, quei valori, quei fattori di senso, quelle conoscenze intellettuali che possono oggi, coniugati tra loro, costituire gli assi portanti di una nuova cultura, che non è la cultura delle nozioni, ma la cultura dei metodi. Questa è davvero una questione importante. Per esempio mi chiedo, e chiedo a tutti voi, cosa vuol dire oggi insegnare una disciplina scientifica come la fisica intesa come materia formativa, di "cultura generale"? In particolare mi chiedo: cos'è "cultura generale" nella meccanica o nell'elettromagnetismo? Come far arrivare ai giovani un qualcosa di fortemente educativo della teoria di Newton o di Maxwell senza entrare nei dettagli tecnici e nel formalismo matematico più astratto? Cos'è che l'uomo colto, che conosca ad esempio la trama di Amleto o le opere fondamentali dell'impressionismo, dovrebbe sapere, e "come" dovrebbe saperlo?
Io sostengo l’idea di una scuola che non si lasci sfuggire la necessità di sviluppare una conoscenza trasversale di tipo interdisciplinare, metodologica ancor prima che specifica proprio nel momento in cui la conoscenza si fa più disciplinare. Sarebbero necessarie cioè “grandi competenze” su “grandi campi”, invece noi finora abbiamo “piccole competenze” su “grandi nicchie di sapere”.
Ma ancora non basta perché è importantissimo coinvolgere direttamente e personalmente gli allievi più di quanto attualmente non si faccia, in quanto il coinvolgimento della componente studentesca costituisce un forte incentivo alle motivazioni e alla corresponsabilità, nonché un potente motivo di coagulo per l'interazione tra gli insegnanti e i giovani insito nei processi di formazione.
La sperimentazione dell’Autonomia in questa prospettiva è solo un contenitore vuoto, una struttura di ordinamento, una cornice importante entro la quale collocare i contenuti in rapporto agli obiettivi educativi o alle competenze, come si dice adesso. Ma di quali competenze, e come realizzarle e soprattutto come verificarle nessuno l’ha detto e soprattutto nessuno l’ha dibattuto e validato. È necessario pertanto che si apra una nuova fase di azione riformatrice: una diversa attenzione al ruolo e alla funzione dei saperi fondamentali e delle metodologie disciplinari per renderli effettivamente apprendibili. E’ perfettamente inutile proporre improbabili e fumosi intenti pedagogici di facciata, vaghi ancorché ambiziosi, se poi non vengono fatti propri e interiorizzati dalla comunità scolastica.
IV. E adesso veniamo ai problemi concreti.

1. LE COMPRESENZE

Com’è noto, le compresenze consistono nell’introdurre nella didattica un elemento di attività aggregante delle conoscenze attorno a un problema per affrontarlo con maggior consapevolezza e varietà di riferimenti. L’intento è dunque quello di agevolare l’apprendimento non solo di conoscenze ma anche, se non soprattutto, di metodi e procedure attraverso la contemporanea presenza di due diversi docenti che possono arricchire la qualità dell’offerta formativa. Dove l’obiettivo delle compresenze perde efficacia è nel duplice fatto che sono numerose e rigide.
La perdita di valore delle compresenze raggiunge il suo massimo nel momento in cui i Consigli di classe constatano che non hanno a loro disposizione strumenti di flessibilità in grado di smussare le difficoltà della programmazione di queste attività. La rigidità del curricolo pertanto è uno dei fattori che fanno perdere efficacia al lavoro educativo pluridisciplinare. Meglio sarebbe stato definire un minimo numero di ore che definiscono le compresenze nei vari moduli. Per esempio piuttosto che obbligare per 33 ore forzate di compresenza i docenti di LNVeM e quelli delle altre discipline nel lavoro comune inerente alla realizzazione dei progetti approvati dai consigli di classe sarebbe stato molto meglio indicare un minimo numero di ore evitando così l’affannarsi dei docenti per l’intero anno scolastico a ricercare ore, buchi e impossibili incastri nel quadro orario modulare dell’orario settimanale.
Infine voglio presentarvi un esempio di malfunzionamento dell’organizzazione delle compresenze che riguarda il sottoscritto. Quest’anno devo svolgere ben otto, dico otto, programmi diversi di LNVeM, a causa del fatto che in due classi ho due moduli di programma specifici e ben sei Unità Didattiche diverse di 11 h ciascuna che coinvolgono le seguenti sei discipline con sei Colleghi diversi: Arte, Italiano, Latino, Scienze, di nuovo Italiano e di nuovo Arte. Si tratta di una babele di impegni e di approcci che, com’è facile intendere, mi portano via troppe energie rischiando di farmi apparire superficiale nelle attività di insegnamento.

2. IL MONTE ORE IRRISORIO DI ALCUNE DISCIPLINE

L’irrisorietà nell’intero curricolo quinquennale del monte ore che riguarda alcune discipline tra le quali la fisica e, dunque, della dimensione empirica della scienza, almeno dal punto di vista metodologico, negli indirizzi classico e linguistico è molto grave. Questo aspetto mi permette di dare visibilità a una personale ma approfondita critica che coincide con quella manifestata più di una volta da altri. Essa riguarda una valutazione di carattere generale; e cioè che «esiste nella società italiana una persistente visione “antiscientifica” che interiorizzata da tempo immemorabile si è collocata nel profondo della coscienza producendo una serie di insopportabili scelte sbagliate. Questa visione antiscientifica mi permette di dire a chiare lettere che è ora di finirla di dare la colpa a Croce e Gentile. Primo, perché sono morti da un bel po’ di tempo ed è poco sensato credere che la loro influenza sia così persistente. Secondo, perché non hanno alcuna influenza fuori d’Italia, mentre il problema delle “due culture” esiste anche fuori, anche se non nelle forme considerevoli di casa nostra. Terzo, perché quasi tutta – non tutta - la filosofia continentale del Novecento è antiscientifica. Dico continentale per lasciare fuori quella inglese, che ha caratteri ben diversi. [Basti pensare alle principali correnti dell’esistenzialismo e della fenomenologia.]» Non voglio entrare negli aspetti filosofici del discorso, anche perché non mi sento preparato a una simile discussione ma sono del parere che ancor oggi ci siano ancora da fare, permettetemi il termine, delle “battaglie culturali” di tipo galileiano. Non è assolutamente pensabile, né ammissibile che un curricolo quinquennale di liceo preveda appena 3 soli moduli di 33 ore nell’intero corso di 5 anni di studi (appena il 2% del monte ore complessivo!). A mio parere è una scelta sbagliata e grave che da sola dequalifica l’intera ingegneria progettuale. Particolarmente grave mi sembra poi la confusione tra attività empiriche di laboratorio e attività multimediali nel laboratorio. Si tenta cioè di fare passare per attività sperimentali la virtualità di una serie di immagini, più o meno animate, al computer.

3. LA DEBOLEZZA DELL’ORIENTATIVITÀ

La vischiosità dei passaggi da un indirizzo all’altro per gli allievi con difficoltà di apprendimento peggiora l’efficacia dell’offerta formativa anche perché occorre tenere conto delle innovazioni introdotte dalla legge sull’elevamento dell’obbligo scolastico. Ciò significa a mio parere che l’orientatività della scuola dell’autonomia è più un fatto di parole che una realtà e non funziona come dovrebbe. Occorre orientare le esperienze al fine del superamento degli elementi di rigidità e di separatezza degli indirizzi scolastici.
Non mi risultano attivate in modo significativo e definito, con progetti chiari nelle scuole, meccanismi di passaggi di indirizzo.

4. IL PROBLEMA DELLA MODULARITÀ E DELLE COERENTI VERIFICHE DELL’ACCERTAMENTO DI COMPETENZE, ABILITÀ E LIVELLI DI PREPARAZIONE

Ho già anticipato la mia critica. Gli aspetti della valutazione delle tre C (conoscenze, competenze e capacità), pilastro centrale del sistema innovativo della nuova scuola dell’Autonomia, non sono state opportunamente e adeguatamente consapevolizzate dai docenti in fase di verifica e di accertamento. Ci si chiede se sono stati predisposti gli strumenti docimologici appositi in relazione al percorso di programmazione stabilito dai consigli di classe. Quando mai si è discusso di ciò? Non mi risulta che ci siano stati in passato e ci siano in corso dibattiti e questo è grave, molto grave. Il problema delle verifiche inerenti ai moduli e alla loro efficacia è la vera novità didattica e metodologica della Scuola dell’Autonomia. A mio parere questo tema è il vero “interrogativo” ancora non risolto. E ciò per almeno due ordini di considerazione. In primo luogo dal punto di vista della “struttura dei moduli”. Siamo proprio sicuri che la modularità scelta all’inizio dell’anno scolastico sia coerente con gli obiettivi scelti, efficace nel messaggio formativo ed equilibrata nei contenuti? Io ho dei dubbi in proposito. Se già a livello di Associazioni Scientifiche c’è molta confusione su questo punto mi chiedo se ciò non si verifichi a maggior ragione a livello di scuola! Oppure noi siamo più bravi degli altri? In secondo luogo, siamo sicuri che le prove strutturate di verifica siano proprio efficaci e sintonizzate sugli obiettivi proposti che si vogliono verificare? Io ho delle perplessità in merito. Siamo proprio sicuri che con questi questionari, inseriti in una logica bimestrale insufficiente dal punto di vista dei tempi, siamo in grado di accertare efficacemente il possesso negli allievi delle tre C? Io ho qualche preoccupazione a questo proposito. Siamo sicuri che c’è omogeneità e uniformità in tutte le classi del liceo? Io non credo che sia sufficiente risolvere alcuni questionari di fine modulo, scelti peraltro in modo più o meno personale dai docenti, per accertare ciò. Mi si perdonerà se insisto su questo fatto, ma io non credo che bastino alcune episodiche riunioni tra piccoli gruppi di docenti all’inizio dell’anno scolastico per interiorizzare tutto ciò.

5. L’INSUFFICIENTE SVILUPPO DELLA CULTURA DI RETE

Impedisce il miglioramento e la diffusione della cultura multimediale e dell’uso delle nuove tecnologie nella didattica. E’ indispensabile accelerare l’alfabetizzazione informatica sia di studenti, sia soprattutto di professori per portare la scuola italiana a livello europeo.
L’avvio del processo di autonomia e le sperimentazioni in atto evidenziano la centralità della comunicazione come elemento di successo e di visibilità della scuola. Il comunicare diventa infatti occasione per presentarsi con autorevolezza e con un’identità istituzionale e professionale sicura ed affidabile. Una rete telematica intranet d’istituto, l’adozione del network diffuso mediante la distribuzione di informazioni, la posta elettronica, le mailing list (28 Colleghi ne sanno qualcosa su questo punto perché aderiscono alla mailing list del nostro liceo che io sto attualmente moderando) e i newsgroup e i sistemi di videoconferenza sono ormai strumenti di insegnamento-apprendimento essenziali e ineludibili perché acquisiti nella cultura di rete. Parafrasando il filosofo Gadamer, dirò che “la crescita della conoscenza [del mezzo informatico come strumento] esalta il valore del capitale umano ed è una delle conseguenze più importanti, più straordinariamente nuove e spesso meno capite dell’uso della Rete”.
Per quanto riguarda invece il modulo specifico di tipo informatico, io credo che l'utilizzo della comunicazione per via telematica sia una competenza necessaria in questa società sempre più basata sull'informazione. Tutti i soggetti attivi nella società dovrebbero possederla, nessuno escluso. Non si tratta di un sapere "di nicchia" come potrebbe essere il saper usare un tornio o saper tradurre dal greco. Per usare un'analogia penso che la situazione sia un po' come era un centinaio di anni fa con la diffusione dell'invenzione del telefono. Solo che allora non era necessario possedere un'istruzione particolare, bastava sollevare la cornetta e comporre un numero, cosa che tutti potevano imparare in un paio di minuti al massimo. Ora lo strumento è decisamente un po’ più complicato e richiede una certa preparazione e uno studio mirato. E quando fornire questa competenza? A quattordici anni sembra proprio il periodo giusto. Questa nuova abilità di base, che tutti dovrebbero possedere e saper usare in tutte le loro attività e quindi anche come ausilio nell'apprendimento di altri saperi, è diventata fondamentale. Il motivo è da ricercare in due ordini di spiegazione tra di loro complementari. Da un lato i giovani di oggi non riescono più ad imparare con il supporto del solo libro di testo, perché è andato in crisi tutto il sistema dell’educazione tradizionale basato sul testo. La civiltà dell’immagine ha ormai travolto quella del solo testo per cui è necessario appropriarsi di nuovi strumenti non solo per interessare i giovani nel processo educativo ma anche, se non soprattutto, per permettere alla scuola di non lasciare ad altre agenzie “non formative” l’uso corretto e controllato del mezzo informatico. Dall’altro la presenza di strumenti telematici possono incentivare momenti di confronto e di contatto all’interno e all’esterno del proprio ambiente di lavoro (Università, mondo del lavoro) e devono divenire uno stimolo e un sostegno quotidiano per tutti i protagonisti del mondo della scuola.

6. L’ASSENZA DI UNA BANCA DEI MODULI E DELLE PROPOSTE DI VERIFICA

E’ una delle più gravi inadempienze del Ministero. Lo aveva promesso da tempo: il CEDE (adesso Istituto Nazionale per la Valutazione) avrebbe dovuto già da tempo predisporre tutta una serie di strumenti tecnici a disposizione dei docenti. A tutt’oggi non se ne vede alcuno se non per i soli esami di stato e relativamente alle sole terze prove. E’ necessario utilizzare di più le risorse culturali e professionali delle Associazioni Scientifiche.

7. NON È STATO COMPLETATO IL PROCESSO DI CONSOLIDAMENTO ORGANIZZATIVO

Parallelamente dentro il liceo non è stato ancora avviato il processo di consolidamento organizzativo perché probabilmente sottovalutato ma a mio parere assolutamente da realizzare. Si tratta dell’invenzione:
? dei Dipartimenti disciplinari,
? di un Nucleo di valutazione dell’efficacia e della qualità dell’offerta educativa,
? del Laboratorio di ricerca/formazione/documentazione,
? di un Nucleo di supporto per la formazione/aggiornamento della cultura della rete,
che si rendono necessari e ineludibili a seguito dei nuovi compiti cui deve assolvere la scuola. In particolare:
1. riguardo ai Dipartimenti disciplinari perché occasioni di formazione e di riflessione sulle pratiche didattiche e sulla loro rielaborazione;
2. riguardo al Nucleo di valutazione dell'efficacia e della qualità dell'offerta educativa perché il liceo ha il compito di raccogliere informazioni e dati sulla produttività culturale dell'istituto, predisponendo indicatori per regolarne lo sviluppo qualitativo, attivando meccanismi comunicativi per promuovere la comunicazione pubblica verso l'esterno: in una sola parola deve imparare ad autovalutarsi;
3. deve poi individuare funzioni-obiettivo che sappiano interpretare, realmente e concretamente i bisogni specifici del liceo, in termini di coordinamento curricolare e di raccordo organizzativo tra i diversi docenti;
4. infine una osservazione. Al di là del trionfalismo su carta del POF non vorrei che scavando un po’ sotto la superficie si possano scoprire ricadute didattiche non molto efficaci e poco significative. E questo per due ordini di motivi. Da una parte perché noi viviamo una contraddizione tipica dei sistemi complessi in transizione. Abbiamo, cioè, una organizzazione scolastica di lavoro regolata con le vecchie regole e con categorie ormai superate, con ritmi e orari della vecchia scuola che non soddisfano più le esigenze dell’oggi mentre cerchiamo di vivere la nuova scuola. Questo produce attrito, conflitto, rigidità, demotivazione, rifiuto. Sarebbe auspicabile una maggiore flessibilità laddove per esempio riguarda l’uso di laboratori, di attività in comune, ecc. D’altro canto la sensazione di ciò proviene dal fatto che non mi sembra sia cambiata la partecipazione alla vita scolastica degli studenti e delle loro famiglie. Infatti la scuola è un efficace centro di formazione e di cultura solo quando opera in un clima di consenso sociale su un progetto culturale e didattico che deve essere condiviso da studenti e famiglie.

8. IL PROLEMA DELLA FORMAZIONE E DELL’AGGIORNAMENTO DEL PERSONALE

Concludo con il problema più sentito dalla classe docente e che rappresenta l’anello debole della riforma. Invece di stanziare fondi per l’aggiornamento e per permettere tutte le attività di irrobustimento delle competenze professionali, il Governo si inventa uno strumento concorsuale che nessuno ha ancora capito bene come funziona e che nonostante sia stato sospeso ha già lasciato sul campo molti arrabbiati. Meglio sarebbe stato se tutta questa massa di denaro fosse stata attribuita alle scuole per utilizzarla nelle attività prima elencate, per esempio prevedendo oltre al part-time il full-time e l’apprendimento delle tecniche relative all’uso delle nuove tecnologie. Si è scelto altresì di lasciare i Presidi delle scuole nella più assoluta estraneità su un terreno che li avrebbe dovuto vedere protagonisti significativi della valorizzazione delle professionalità. Il risultato sarà che l’aggiornamento non si farà o si farà male e i problemi sopra accennati non saranno risolti. Nella scuola dell'autonomia sono modificate le esigenze di aggiornamento in servizio dei docenti, perché le loro responsabilità sono aumentate a causa della elaborazione del piano dell’offerta formativa. La formazione in servizio non coincide più con la frequenza sporadica di qualche corso di aggiornamento, interno od esterno alla scuola, ma implica l’adozione di strategie innovative. Ogni docente deve avere diritto ad un proprio percorso personalizzato di sviluppo professionale, mentre ogni scuola - usufruendo di un apposito budget finanziario - dovrebbe mettere a punto un sistema differenziato di opportunità formative per il proprio personale.
Prima di concludere un’ultima osservazione. E’ di poche settimane fa un dibattito fra alcuni giornalisti e il Ministro a proposito della critica mossa agli intellettuali di sinistra per non essere intervenuti a criticare la riforma della scuola su alcuni aspetti di fondo che la riguarda. Il Ministro ha detto che la riforma della scuola in corso ha l’obiettivo di elevare la cultura degli italiani e di indagare sui rapporti tra “l’essenzialità epistemologica” e le “metodologie di apprendimento” delle singole discipline. E’ lecito chiedersi a quale cultura ci si riferisce? Certo non a quella scientifica se immediatamente dopo il Ministero ha avvertito la necessità di aggiungere ai curricoli normali il Progetto SeT su “scienza e tecnologia”. Perché le belle cose presenti in questo progetto non vengono inserite stabilmente e in modo istituzionale nell’impianto generale della Riforma? E poi, a quale essenzialità epistemologica ci si riferisce se si strutturano i curricoli secondari in modo tale che in un intero quinquennio la fisica e le lingue straniere (importantissimi elementi di veicolazione delle idee), discipline ricche di metodologia e di cultura, sono presenti la prima solo un’ora all’anno e le seconde anch’esse per poche ore? Per quanto riguarda la fisica persino la riforma Gentile prevedeva quasi il doppio delle ore della scuola dell’Autonomia. E’ un affronto allo stesso Galileo.
Il fatto è che, come dicevo prima, la persistente visione antiscientifica, particolarmente forte nella cultura di base dei membri delle Istituzioni, porta a questi paradossi: si preme l’acceleratore sull’introduzione delle nuove tecnologie, perché “non se ne può fare a meno”, e poi si lasciano le discipline, pertinenti a questa cultura, a mezz’aria, sospese in un limbo di amara incomprensione e di grave emarginazione. Mi auguro che sopravvenga un ripensamento su queste scelte che non possono non nuocere, così come sono state attualmente definite, alla scuola italiana.
Ma la critica più forte che mi sento di fare in questo momento riguarda la politica governativa verso i docenti. Ricordo che nel programma del governo Prodi c’era l’impegno dell’esecutivo ad aiutare i docenti nella loro indispensabile attività di insegnamento. Come sono andate veramente le cose? La verità è davanti a tutti. Si nota in modo chiaro e inequivocabile:
• l’uso disinvolto del personale docente che viene sistematicamente utilizzato come una moltitudine di persone non in grado di esprimere pareri e suggerimenti capaci di influenzare i processi decisionali;
• la diminuzione sistematica del numero dei docenti in servizio con una ostinata e forzata politica di riduzione del personale del comparto scuola (art.21 della Legge 488 relativa al collegato alla finanziaria 2000);
• l’aumento incontrollato e incontrollabile del numero di allievi per classe che appesantisce la didattica e in ultima analisi diminuisce l’efficacia dell’apprendimento;
• l’aumento incontrollato e incontrollabile alla scuola di nuove attività come l’educazione stradale, l’educazione alla legalità, l’educazione alla cultura multirazziale, l’educazione all’ambiente e via dicendo senza predisporre un solido canale organizzativo-finanziario;
• un orario di servizio dilatato a dismisura senza certezze sugli orari di lavoro;
• il poco tempo rimasto a disposizione per preparare la didattica quotidiana e le importantissime e fondamentali letture di cultura generale che ineriscono all’aggiornamento;
• la mancanza di incentivi fiscali come oneri deducibili relativi all’acquisto di strumenti professionali (acquisto di libri, riviste, software, defiscalizzazione di personal computer, tariffa ridotta di accesso alla rete, CD-ROM, enciclopedie, ecc…);
• una pesante e pericolosa perdita di identità professionale che comporta come conseguenza il considerare la funzione docente come un impiego da ufficio del Catasto dimenticando che la funzione docente ha a che vedere con la fondamentale attività di trasmissione non solo di cultura ma anche di senso, di valori e di idee forti che attengono al significato della vita.

Spero di non avervi tediato troppo e grazie dell’attenzione.
(Roma, 24 Febbraio 2000)

(1)E.Fabri, [Sagredo_ML: 1711], Pisa, 29 Dicembre 1999.
(2)A. Panebianco, Il Corriere della Sera, Anno 2000.
(3)Ibidem;

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