lunedì 14 marzo 2005

Seminario di autoaggiornamento: "La nuova professionalità docente".

Riceviamo e pubblichiamo volentieri il contributo inviatoci.

Abstract



"Guidoni/60". "Realizzazione di un impianto fotovoltaico con cellule al silicio monocristallino con pannelli piani e/o concentratori sul terrazzo astronomico". "Sportello didattico". "Nomadi". "Il territorio della IX Circoscrizione". "Centro di libera informazione e documentazione sui rapporti tra i popoli". "Framework-Portfolio"... Per gli studenti del liceo c'è la difficoltà della scelta. Una iper abbondanza di corsi, corsetti, corsini, corsoni; insomma, come si suol dire in simili circostanze, ce n'è per tutti i gusti. Si tratta della pietanza centrale del menù che la scuola dell'Autonomia ci propone. Una scuola basata su Progetti.
Abbiamo risolto finalmente tutti i problemi della crisi della scuola e nella scuola? Abbiamo finalmente trovato la panacea per tutti i mali? O, più modestamente, si tratta di contorni, buoni, alcuni ottimi, ma sempre contorni?
E' questo il rebus da sciogliere. Di una cosa però sono certo: che non saranno certamente i progetti da soli a sciogliere i nodi fondamentali della nuova scuola. I nodi fondamentali della nuova, o nuovissima, scuola che dir si vuole li potrà iniziare a sciogliere il Signor Ministro quando si convincerà che i problemi della scuola non potranno mai essere risolti senza una seria politica scolastica che ridia entusiasmo agli operatori che in essa lavorano. Cioè, quando avrà preso coscienza che è necessario mettere in atto alcuni strumenti normativo-giuridico-finanziari volti all'eliminazione di due aspetti negativi: da un lato l'ambiguità - per non parlare delle contraddizioni - che implicano l'accettazione del concetto di P.O.F. e dall'altro, quelle che io chiamo, le vischiosità della scuola dell'Autonomia.
Le ambiguità hanno a che vedere con le scelte di fondo di politica scolastica inerenti alle finalità della scuola in questo Paese e, pertanto, sono necessarie chiarezza e sincerità sia sulle scelte che riguardano la politica del personale docente della scuola, sia sulle questioni che attengono ai “saperi di base” e alle modalità di aggregazione di questi saperi da parte non solo dell’intera collettività scolastica, ma anche del Paese tutto, altrimenti diventa manifesto che la Riforma è cosa decisa nel chiuso di qualche stanza di partito di maggioranza con la complicità furbesca di qualche super-burocrate anche super-esperto.
Il problema delle vischiosità, invece, riguarda gli interventi tecnici necessari per eliminare alcuni aspetti negativi che impediscono di far decollare con scioltezza il lavoro di insegnamento-apprendimento nella scuola italiana della modularità.
L’intervento che desidero effettuare al Collegio dei Docenti, durante la due giorni di lavori, mira a mettere a fuoco queste tematiche nella consapevolezza che il metodo galileiano del confronto e della critica possa contribuire a migliorare la conoscenza dei problemi e delle implicazioni della Riforma della scuola dell’Autonomia.


Il quadro normativo e organizzativo


In qualità di docente che crede nella validità del processo riformatore in atto nel mondo della scuola intervengo con piacere ai lavori del Seminario.
Inizio questa mia comunicazione osservando che viviamo tempi in tumultuosa trasformazione con forti interventi di innovazione in tutti i settori che riguardano la nostra esistenza. Ci troviamo cioè nel bel mezzo di un uragano di nuove idee, di diversificazione di ruoli, di trasformazione di funzioni, di sfide che producono in tutti noi inquietudine e smarrimento. Si tratta di cambiamenti che non possono essere considerati congiunturali ma sono chiaramente strutturali, irreversibili e, aggiungo, ineludibili. Per certi versi mi ricordano l’inizio del secolo scorso, quando nei primi anni del Novecento la scienza fu costretta a virare profondamente dalla linea maestra che era stata indicata con tanto ottimismo dalle grandi figure della scienza come Newton e Maxwell. Il cambiamento fu realizzato, com’è noto, attraverso le novità concettuali della Meccanica Quantistica e della Teoria della Relatività che rivoluzionarono profondamente il pensiero scientifico facendo perdere di senso le idee paradigmatiche precedentemente decise come direttrici di ricerca e di studio. A cento anni di distanza si sta riproponendo lo stesso micidiale miscuglio di effetti. Si va dal disorientamento alla confusione, dalla perdita di identità alla frustrazione e si arriva, in casi limiti, anche ad alcune forme di rifiuto che investono la nostra stessa attività professionale producendo il desiderio di abbandonare la scuola e ritirarsi a vita privata. Io, per esempio, non sono riuscito ancora ad assorbire per intero le novità di questi ultimi anni e, nonostante segua con interesse e partecipazione i fatti recenti mi sento ancora inadeguato e incapace di comprendere per intero l’importanza del “nuovo”. Le cose che dirò nella mia comunicazione sono pertanto il frutto di questi miei pensieri e delle mie riflessioni, in parte disordinati e in parte non originali, che riflettono tuttavia e per intero le mie idee.
Inizierò permettendomi di rilevare l’esistenza di fattori di “vischiosità” che introducono alcune note negative in merito all’efficacia e alla significatività della nuova scuola dell’Autonomia.
Ho riflettuto un po’ sul significato della riforma della scuola dell’Autonomia e sono arrivato alla conclusione che una possibile interpretazione del senso della riforma è che la si deve considerare nel suo insieme, in riferimento agli altri cicli scolastici, perché si tratta di una catena di maglie interdipendenti, non separabili tra loro, che fanno emergere un quadro orientativo comune.
Riprendo una osservazione già effettuata da altri su questo tema che si riferisce al fatto che il quadro della riforma, osservato nel suo insieme, appare ispirato all’idea che il mutamento e l’innovazione impongono delle rinunce nei confronti della qualità a favore della quantità. “Dopo aver preso atto che il numero dei diplomati e laureati in Italia, rispetto al resto d’Europa, è terribilmente basso si è deciso di aumentarne – a tutti i costi – il loro numero. Appare questa, forse, la filosofia ispiratrice del progetto, ché nel mentre persegue un nobile e giusto obiettivo è costretta a rinunce non indifferenti. Il risultato che essa ottiene è l’adattamento dell’ordinamento scolastico a complesse formule di contrazione delle pretese e, purtroppo, a un probabile abbassamento della qualità e del livello culturale del sistema educativo” . Intendiamoci, l’intento e l’architettura della scuola dell’Autonomia sembrano validi e adeguati. Manca tuttavia qualcosa che permetta di andare fino in fondo al cambiamento. Che sia in atto un pericoloso abbassamento della qualità dell’istruzione secondaria superiore lo possono evidenziare i seguenti indizi che riguardano:
• la riduzione di un anno del ciclo di studi;
• la diminuzione delle ore settimanali di lezione;
• l’innalzamento dell’obbligo scolastico di appena un anno senza che sia stata organizzata una convincente formazione professionale;
• l’assottigliamento del monte ore annuale di alcune discipline che impedisce ai docenti che le insegnano quella serenità di azioni didattiche ed educative di lungo respiro (l’ozium educativo) in grado di lasciare un’impronta duratura e significativa sulla formazione della personalità degli allievi;
• la consistente delega in bianco al Ministro per quanto riguarda contenuti, metodi, discipline, struttura oraria, ecc.
Tutto ciò comporta, come è facile prevedere e nonostante il considerevole impegno dei docenti, il forte rischio che il biennio liceale sia ridotto a un inefficace e poco concludente biennio di sperimentazione livellato verso il basso su attività che tentino di ridurre le carenze prodotte dal ciclo precedente. Per fare un esempio banale che possa dare un’idea, anche se approssimativa, di quello che potrebbe avvenire basti pensare alla riduzione della storia antica o della geometria razionale o delle scienze sperimentali a un approssimativo riassunto. Non è necessario essere delle Cassandre per prevedere, a regime, la presenza di candidati ai nuovi esami di stato in difficoltà sul piano del possesso di alcune capacità intellettuali e del pensiero divergente, come quelle relative alla rielaborazione critica dei temi fondamentali delle diverse discipline e al possesso di metodologie di indagine proprie degli ambiti disciplinari, impossibili da sviluppare adeguatamente nel poco tempo a disposizione e con la filosofia modulare dell’insegnamento, di tipo anglosassone, che il Ministero sembra avere sposato.
La conclusione che si può trarre dalle cose dette è che questa nuova “filosofia pedagogica”, nonostante i buoni propositi del nuovo esame di stato e dell’aggiornamento “televisivo-satellitare”, comporterà molto probabilmente un abbassamento della preparazione dei diplomati anche se sul piano quantitativo essi saranno percentualmente molto più numerosi di prima.
Mi rendo conto che questo fatto non può essere attribuito esclusivamente alla nuova scuola. Allo stato attuale delle cose tuttavia è indiscutibile un dato che riguarda l’insegnamento di tutte le discipline: s'insegna molto e viene appreso poco. La scommessa che la scuola dell’autonomia ha fatto riguarda il come fare in modo che ciò che viene trasferito diventi effettivamente strumento operativo per accrescimento culturale dello “studente-cittadino”.
Non sono in grado in questa sede di dare suggerimenti in merito all’architettura che dovrebbe avere il nuovo sistema riformatore per risolvere i problemi testè lamentati. Né spetta certo a me il compito di sciogliere i nodi di queste ambiguità. Mi fermo più modestamente a rilevare alcuni dei più importanti aspetti negativi della nuova scuola dell’Autonomia, non prima di essermi soffermato su un’introduzione che ritengo significativa.
Intanto, non si può non rimanere sorpresi dal colossale e rivoluzionario impianto innovatore messo in moto dal Ministero. La mia sorpresa è duplice. Da un lato rilevo certamente la coerenza del progetto, l’equilibrio e anche la solidità della struttura riformatrice. Dall’altra, noto la ricchezza di giustificazioni e di spiegazioni anche di tipo epistemologico, oltre che culturale-pedagogico. Non c’è che dire, si tratta di un progetto dall’architettura imponente, il primo dopo la riforma Gentile. Peccato che rimanga un’ambiguità di fondo che se non verrà risolta rischia di compromettere il successo di tutto lo sforzo messo in opera. Vediamo di che si tratta.
I. In primo luogo mi sembra particolarmente negativo l’atteggiamento di sottovalutazione dei problemi oggi esistenti e, fatto più grave, trovo sconvenienti le esagerate dichiarazioni di ottimismo dei più. Questo naturalmente non significa che deve essere obbligatorio il pessimismo ma mi sembra doveroso ricordare che il successo di una scuola passa innanzitutto attraverso l’accettazione incondizionata della critica intesa come “capacità metodologica” di individuare gli aspetti meno adeguati di una proposta per permettere di operare per una sua trasformazione.
La scuola dell’Autonomia dovrebbe fare tesoro della metodologia d’indagine suggerita dal metodo galileiano di tipo sperimentale. In questi tre anni di sperimentazione, infatti, noi operatori scolastici, operando in condizioni di grande difficoltà e con pochi strumenti, abbiamo maturato la convinzione dell’inadeguatezza e delle limitazioni di alcuni aspetti dell’innovazione curriculare.
Io credo che nella logica progettuale della scuola dell’Autonomia sarebbe un errore minimizzare gli aspetti negativi perché, a mio parere, anche pochi problemi non adeguatamente affrontati e risolti possono da soli togliere visibilità e concretezza al nostro lavoro di educatori, trasformando un progetto forte ed efficace sul piano della innovazione e della robustezza dei pilastri educativo-curriculari in una proposta debole, senza sbocchi e mal vista da molti.
II. Gli elementi di debolezza del progetto che mi costringono a dare un giudizio parzialmente negativo dell’attuale sperimentazione hanno a che vedere con un aspetto generale sintetizzabile nella considerazione che finché si riterrà che l'insegnamento sia solo un trasferimento quantitativo di conoscenze, si farà molta fatica ad insegnare e resterà molto poco allo studente. Occorre pensare all'insegnamento come a un processo interattivo e dinamico che guidi e aiuti lo studente a costruire da sé le conoscenze e a rielaborarle in modo autonomo. Se ciò non è stato finora possibile è perché vi sono tante, troppe vischiosità, in parte dovute ai seguenti fattori:
1. le ambiguità delle compresenze;
2. l’insufficienza del monte ore di alcune discipline;
3. l’orientamento incompleto e incompreso;
4. il problema della modularità e delle verifiche;
5. l’insufficiente sviluppo della cultura di rete;
6. l’assenza di una banca dei moduli e di proposte concrete di verifica e di valutazione;
7. l’incompletezza del processo di consolidamento organizzativo del liceo;
8. il problema della formazione e dell’aggiornamento dei docenti;
9. la mancanza di un reale e concreto meccanismo di rivalutazione delle eccellenze.
Come si vede esistono molti problemi che allo stato attuale delle cose non sembrano risolvibili attraverso semplici provvedimenti verbali. Entrerò adesso nel merito di alcune di queste tematiche. Prima però un’osservazione. Quello che rende poco efficace il lavoro di insegnamento-apprendimento nella realtà quotidiana è la limitata collaborazione che esiste tra i suoi componenti. Le compresenze e la maggiore attenzione ai problemi della comunicazione e dell’educazione linguistica (si veda il documento dei 40 Saggi) come elementi di successo e di visibilità rispetto all'utenza sono una delle positive risposte che possono migliorare l’apprendimento. Tuttavia non bastano, perché esse sono delle risposte parziali al problema più generale dell’educazione al metodo, al lavoro di gruppo, alla condivisione dell’attività didattica, alla progettazione comune del lavoro, allo spirito della collegialità. La scuola italiana si è sempre caratterizzata, purtroppo, per l’eccessivo ed esasperato individualismo dell’insegnamento esercitato da qualche bravo e isolato docente che si rendeva protagonista in proprio (nelle famose sezioni A) di buona parte dell’intero processo educativo. Oggi non è più possibile tutto questo. In una società impostata sulla globalizzazione, sull’introduzione delle nuove tecnologie che permettono nuove forme di comunicazione a più livelli, sull’interazione collegiale dei membri di una istituzione, sulla necessità di nuove figure scolastiche, siano essi appartenenti a un’azienda, a una società o a una scuola (magari costituita su più plessi scolastici) che lavorano a distanza di molti chilometri dalla sede centrale, il “lavoro collaborativo” è fondamentale per la sopravvivenza dell’istituzione stessa. Acquista pertanto vitale importanza il lavoro di gruppo - condizione prioritaria per stabilire un clima organizzativo che esalti l'interazione positiva fra i docenti e valorizzi tutte le competenze presenti all'interno della scuola - in cui i soggetti dell’insegnamento imparino a collaborare in modo reale, efficace, pratico e in definitiva, abituale. Da questo punto di vista le “classi aperte”, lo “scambio di docenti” nelle classi, le “compresenze” sono tutti aspetti positivi che vanno nella direzione giusta. Ma ancora non bastano.
III. Ciò che è vitale riguarda la accettazione di un omogeneo ed equilibrato P.O.F., un sillabo comune, equilibrato negli assi culturali, non pretenzioso, che proponga dei saperi di base che siano interiorizzati e fatti propri dall’intera comunità scolastica, che vengano pubblicizzati da una vasta campagna di opinione sia a livello di scuola, sia a livello più ampio di territorio. Quello che io chiamo sillabo non è la elencazione acritica di una serie di fatti e nozioni che devono essere proposti agli allievi per essere appresi. Questo sillabo comune deve individuare in modo chiaro ed esplicito "le conoscenze fondamentali per l'apprendimento dei giovani nella scuola dei prossimi anni”, e "i contenuti essenziali per la formazione di base" e deve definire quei saperi in generale, quei valori, quei fattori di senso, quelle conoscenze intellettuali che possono oggi, coniugati tra loro, costituire gli assi portanti di una nuova cultura, che non è la cultura delle nozioni, ma la cultura dei metodi. Questa è davvero una questione importante. Per esempio mi chiedo, e chiedo a tutti voi, cosa vuol dire oggi insegnare una disciplina scientifica come la fisica intesa come materia formativa, di "cultura generale"? In particolare mi chiedo: cos'è "cultura generale" nella meccanica o nell'elettromagnetismo? Come far arrivare ai giovani un qualcosa di fortemente educativo della teoria di Newton o di Maxwell senza entrare nei dettagli tecnici e nel formalismo matematico più astratto? Cos'è che l'uomo colto, che conosca ad esempio la trama di Amleto o le opere fondamentali dell'impressionismo, dovrebbe sapere, e "come" dovrebbe saperlo?
Io sostengo l’idea di una scuola che non si lasci sfuggire la necessità di sviluppare una conoscenza trasversale di tipo interdisciplinare, metodologica ancor prima che specifica proprio nel momento in cui la conoscenza si fa più disciplinare. Sarebbero necessarie cioè “grandi competenze” su “grandi campi”, invece noi finora abbiamo “piccole competenze” su “grandi nicchie di sapere”.
Ma ancora non basta perché è importantissimo coinvolgere direttamente e personalmente gli allievi più di quanto attualmente non si faccia, in quanto il coinvolgimento della componente studentesca costituisce un forte incentivo alle motivazioni e alla corresponsabilità, nonché un potente motivo di coagulo per l'interazione tra gli insegnanti e i giovani insito nei processi di formazione.
La sperimentazione dell’Autonomia in questa prospettiva è solo un contenitore vuoto, una struttura di ordinamento, una cornice importante entro la quale collocare i contenuti in rapporto agli obiettivi educativi o alle competenze, come si dice adesso. Ma di quali competenze, e come realizzarle e soprattutto come verificarle nessuno l’ha detto e soprattutto nessuno l’ha dibattuto e validato. È necessario pertanto che si apra una nuova fase di azione riformatrice: una diversa attenzione al ruolo e alla funzione dei saperi fondamentali e delle metodologie disciplinari per renderli effettivamente apprendibili. E’ perfettamente inutile proporre improbabili e fumosi intenti pedagogici di facciata, vaghi ancorché ambiziosi, se poi non vengono fatti propri e interiorizzati dalla comunità scolastica.
IV. E adesso veniamo ai problemi concreti.

1. LE COMPRESENZE

Com’è noto, le compresenze consistono nell’introdurre nella didattica un elemento di attività aggregante delle conoscenze attorno a un problema per affrontarlo con maggior consapevolezza e varietà di riferimenti. L’intento è dunque quello di agevolare l’apprendimento non solo di conoscenze ma anche, se non soprattutto, di metodi e procedure attraverso la contemporanea presenza di due diversi docenti che possono arricchire la qualità dell’offerta formativa. Dove l’obiettivo delle compresenze perde efficacia è nel duplice fatto che sono numerose e rigide.
La perdita di valore delle compresenze raggiunge il suo massimo nel momento in cui i Consigli di classe constatano che non hanno a loro disposizione strumenti di flessibilità in grado di smussare le difficoltà della programmazione di queste attività. La rigidità del curricolo pertanto è uno dei fattori che fanno perdere efficacia al lavoro educativo pluridisciplinare. Meglio sarebbe stato definire un minimo numero di ore che definiscono le compresenze nei vari moduli. Per esempio piuttosto che obbligare per 33 ore forzate di compresenza i docenti di LNVeM e quelli delle altre discipline nel lavoro comune inerente alla realizzazione dei progetti approvati dai consigli di classe sarebbe stato molto meglio indicare un minimo numero di ore evitando così l’affannarsi dei docenti per l’intero anno scolastico a ricercare ore, buchi e impossibili incastri nel quadro orario modulare dell’orario settimanale.
Infine voglio presentarvi un esempio di malfunzionamento dell’organizzazione delle compresenze che riguarda il sottoscritto. Quest’anno devo svolgere ben otto, dico otto, programmi diversi di LNVeM, a causa del fatto che in due classi ho due moduli di programma specifici e ben sei Unità Didattiche diverse di 11 h ciascuna che coinvolgono le seguenti sei discipline con sei Colleghi diversi: Arte, Italiano, Latino, Scienze, di nuovo Italiano e di nuovo Arte. Si tratta di una babele di impegni e di approcci che, com’è facile intendere, mi portano via troppe energie rischiando di farmi apparire superficiale nelle attività di insegnamento.

2. IL MONTE ORE IRRISORIO DI ALCUNE DISCIPLINE

L’irrisorietà nell’intero curricolo quinquennale del monte ore che riguarda alcune discipline tra le quali la fisica e, dunque, della dimensione empirica della scienza, almeno dal punto di vista metodologico, negli indirizzi classico e linguistico è molto grave. Questo aspetto mi permette di dare visibilità a una personale ma approfondita critica che coincide con quella manifestata più di una volta da altri. Essa riguarda una valutazione di carattere generale; e cioè che «esiste nella società italiana una persistente visione “antiscientifica” che interiorizzata da tempo immemorabile si è collocata nel profondo della coscienza producendo una serie di insopportabili scelte sbagliate. Questa visione antiscientifica mi permette di dire a chiare lettere che è ora di finirla di dare la colpa a Croce e Gentile. Primo, perché sono morti da un bel po’ di tempo ed è poco sensato credere che la loro influenza sia così persistente. Secondo, perché non hanno alcuna influenza fuori d’Italia, mentre il problema delle “due culture” esiste anche fuori, anche se non nelle forme considerevoli di casa nostra. Terzo, perché quasi tutta – non tutta - la filosofia continentale del Novecento è antiscientifica. Dico continentale per lasciare fuori quella inglese, che ha caratteri ben diversi. [Basti pensare alle principali correnti dell’esistenzialismo e della fenomenologia.]» Non voglio entrare negli aspetti filosofici del discorso, anche perché non mi sento preparato a una simile discussione ma sono del parere che ancor oggi ci siano ancora da fare, permettetemi il termine, delle “battaglie culturali” di tipo galileiano. Non è assolutamente pensabile, né ammissibile che un curricolo quinquennale di liceo preveda appena 3 soli moduli di 33 ore nell’intero corso di 5 anni di studi (appena il 2% del monte ore complessivo!). A mio parere è una scelta sbagliata e grave che da sola dequalifica l’intera ingegneria progettuale. Particolarmente grave mi sembra poi la confusione tra attività empiriche di laboratorio e attività multimediali nel laboratorio. Si tenta cioè di fare passare per attività sperimentali la virtualità di una serie di immagini, più o meno animate, al computer.

3. LA DEBOLEZZA DELL’ORIENTATIVITÀ

La vischiosità dei passaggi da un indirizzo all’altro per gli allievi con difficoltà di apprendimento peggiora l’efficacia dell’offerta formativa anche perché occorre tenere conto delle innovazioni introdotte dalla legge sull’elevamento dell’obbligo scolastico. Ciò significa a mio parere che l’orientatività della scuola dell’autonomia è più un fatto di parole che una realtà e non funziona come dovrebbe. Occorre orientare le esperienze al fine del superamento degli elementi di rigidità e di separatezza degli indirizzi scolastici.
Non mi risultano attivate in modo significativo e definito, con progetti chiari nelle scuole, meccanismi di passaggi di indirizzo.

4. IL PROBLEMA DELLA MODULARITÀ E DELLE COERENTI VERIFICHE DELL’ACCERTAMENTO DI COMPETENZE, ABILITÀ E LIVELLI DI PREPARAZIONE

Ho già anticipato la mia critica. Gli aspetti della valutazione delle tre C (conoscenze, competenze e capacità), pilastro centrale del sistema innovativo della nuova scuola dell’Autonomia, non sono state opportunamente e adeguatamente consapevolizzate dai docenti in fase di verifica e di accertamento. Ci si chiede se sono stati predisposti gli strumenti docimologici appositi in relazione al percorso di programmazione stabilito dai consigli di classe. Quando mai si è discusso di ciò? Non mi risulta che ci siano stati in passato e ci siano in corso dibattiti e questo è grave, molto grave. Il problema delle verifiche inerenti ai moduli e alla loro efficacia è la vera novità didattica e metodologica della Scuola dell’Autonomia. A mio parere questo tema è il vero “interrogativo” ancora non risolto. E ciò per almeno due ordini di considerazione. In primo luogo dal punto di vista della “struttura dei moduli”. Siamo proprio sicuri che la modularità scelta all’inizio dell’anno scolastico sia coerente con gli obiettivi scelti, efficace nel messaggio formativo ed equilibrata nei contenuti? Io ho dei dubbi in proposito. Se già a livello di Associazioni Scientifiche c’è molta confusione su questo punto mi chiedo se ciò non si verifichi a maggior ragione a livello di scuola! Oppure noi siamo più bravi degli altri? In secondo luogo, siamo sicuri che le prove strutturate di verifica siano proprio efficaci e sintonizzate sugli obiettivi proposti che si vogliono verificare? Io ho delle perplessità in merito. Siamo proprio sicuri che con questi questionari, inseriti in una logica bimestrale insufficiente dal punto di vista dei tempi, siamo in grado di accertare efficacemente il possesso negli allievi delle tre C? Io ho qualche preoccupazione a questo proposito. Siamo sicuri che c’è omogeneità e uniformità in tutte le classi del liceo? Io non credo che sia sufficiente risolvere alcuni questionari di fine modulo, scelti peraltro in modo più o meno personale dai docenti, per accertare ciò. Mi si perdonerà se insisto su questo fatto, ma io non credo che bastino alcune episodiche riunioni tra piccoli gruppi di docenti all’inizio dell’anno scolastico per interiorizzare tutto ciò.

5. L’INSUFFICIENTE SVILUPPO DELLA CULTURA DI RETE

Impedisce il miglioramento e la diffusione della cultura multimediale e dell’uso delle nuove tecnologie nella didattica. E’ indispensabile accelerare l’alfabetizzazione informatica sia di studenti, sia soprattutto di professori per portare la scuola italiana a livello europeo.
L’avvio del processo di autonomia e le sperimentazioni in atto evidenziano la centralità della comunicazione come elemento di successo e di visibilità della scuola. Il comunicare diventa infatti occasione per presentarsi con autorevolezza e con un’identità istituzionale e professionale sicura ed affidabile. Una rete telematica intranet d’istituto, l’adozione del network diffuso mediante la distribuzione di informazioni, la posta elettronica, le mailing list (28 Colleghi ne sanno qualcosa su questo punto perché aderiscono alla mailing list del nostro liceo che io sto attualmente moderando) e i newsgroup e i sistemi di videoconferenza sono ormai strumenti di insegnamento-apprendimento essenziali e ineludibili perché acquisiti nella cultura di rete. Parafrasando il filosofo Gadamer, dirò che “la crescita della conoscenza [del mezzo informatico come strumento] esalta il valore del capitale umano ed è una delle conseguenze più importanti, più straordinariamente nuove e spesso meno capite dell’uso della Rete”.
Per quanto riguarda invece il modulo specifico di tipo informatico, io credo che l'utilizzo della comunicazione per via telematica sia una competenza necessaria in questa società sempre più basata sull'informazione. Tutti i soggetti attivi nella società dovrebbero possederla, nessuno escluso. Non si tratta di un sapere "di nicchia" come potrebbe essere il saper usare un tornio o saper tradurre dal greco. Per usare un'analogia penso che la situazione sia un po' come era un centinaio di anni fa con la diffusione dell'invenzione del telefono. Solo che allora non era necessario possedere un'istruzione particolare, bastava sollevare la cornetta e comporre un numero, cosa che tutti potevano imparare in un paio di minuti al massimo. Ora lo strumento è decisamente un po’ più complicato e richiede una certa preparazione e uno studio mirato. E quando fornire questa competenza? A quattordici anni sembra proprio il periodo giusto. Questa nuova abilità di base, che tutti dovrebbero possedere e saper usare in tutte le loro attività e quindi anche come ausilio nell'apprendimento di altri saperi, è diventata fondamentale. Il motivo è da ricercare in due ordini di spiegazione tra di loro complementari. Da un lato i giovani di oggi non riescono più ad imparare con il supporto del solo libro di testo, perché è andato in crisi tutto il sistema dell’educazione tradizionale basato sul testo. La civiltà dell’immagine ha ormai travolto quella del solo testo per cui è necessario appropriarsi di nuovi strumenti non solo per interessare i giovani nel processo educativo ma anche, se non soprattutto, per permettere alla scuola di non lasciare ad altre agenzie “non formative” l’uso corretto e controllato del mezzo informatico. Dall’altro la presenza di strumenti telematici possono incentivare momenti di confronto e di contatto all’interno e all’esterno del proprio ambiente di lavoro (Università, mondo del lavoro) e devono divenire uno stimolo e un sostegno quotidiano per tutti i protagonisti del mondo della scuola.

6. L’ASSENZA DI UNA BANCA DEI MODULI E DELLE PROPOSTE DI VERIFICA

E’ una delle più gravi inadempienze del Ministero. Lo aveva promesso da tempo: il CEDE (adesso Istituto Nazionale per la Valutazione) avrebbe dovuto già da tempo predisporre tutta una serie di strumenti tecnici a disposizione dei docenti. A tutt’oggi non se ne vede alcuno se non per i soli esami di stato e relativamente alle sole terze prove. E’ necessario utilizzare di più le risorse culturali e professionali delle Associazioni Scientifiche.

7. NON È STATO COMPLETATO IL PROCESSO DI CONSOLIDAMENTO ORGANIZZATIVO

Parallelamente dentro il liceo non è stato ancora avviato il processo di consolidamento organizzativo perché probabilmente sottovalutato ma a mio parere assolutamente da realizzare. Si tratta dell’invenzione:
? dei Dipartimenti disciplinari,
? di un Nucleo di valutazione dell’efficacia e della qualità dell’offerta educativa,
? del Laboratorio di ricerca/formazione/documentazione,
? di un Nucleo di supporto per la formazione/aggiornamento della cultura della rete,
che si rendono necessari e ineludibili a seguito dei nuovi compiti cui deve assolvere la scuola. In particolare:
1. riguardo ai Dipartimenti disciplinari perché occasioni di formazione e di riflessione sulle pratiche didattiche e sulla loro rielaborazione;
2. riguardo al Nucleo di valutazione dell'efficacia e della qualità dell'offerta educativa perché il liceo ha il compito di raccogliere informazioni e dati sulla produttività culturale dell'istituto, predisponendo indicatori per regolarne lo sviluppo qualitativo, attivando meccanismi comunicativi per promuovere la comunicazione pubblica verso l'esterno: in una sola parola deve imparare ad autovalutarsi;
3. deve poi individuare funzioni-obiettivo che sappiano interpretare, realmente e concretamente i bisogni specifici del liceo, in termini di coordinamento curricolare e di raccordo organizzativo tra i diversi docenti;
4. infine una osservazione. Al di là del trionfalismo su carta del POF non vorrei che scavando un po’ sotto la superficie si possano scoprire ricadute didattiche non molto efficaci e poco significative. E questo per due ordini di motivi. Da una parte perché noi viviamo una contraddizione tipica dei sistemi complessi in transizione. Abbiamo, cioè, una organizzazione scolastica di lavoro regolata con le vecchie regole e con categorie ormai superate, con ritmi e orari della vecchia scuola che non soddisfano più le esigenze dell’oggi mentre cerchiamo di vivere la nuova scuola. Questo produce attrito, conflitto, rigidità, demotivazione, rifiuto. Sarebbe auspicabile una maggiore flessibilità laddove per esempio riguarda l’uso di laboratori, di attività in comune, ecc. D’altro canto la sensazione di ciò proviene dal fatto che non mi sembra sia cambiata la partecipazione alla vita scolastica degli studenti e delle loro famiglie. Infatti la scuola è un efficace centro di formazione e di cultura solo quando opera in un clima di consenso sociale su un progetto culturale e didattico che deve essere condiviso da studenti e famiglie.

8. IL PROLEMA DELLA FORMAZIONE E DELL’AGGIORNAMENTO DEL PERSONALE

Concludo con il problema più sentito dalla classe docente e che rappresenta l’anello debole della riforma. Invece di stanziare fondi per l’aggiornamento e per permettere tutte le attività di irrobustimento delle competenze professionali, il Governo si inventa uno strumento concorsuale che nessuno ha ancora capito bene come funziona e che nonostante sia stato sospeso ha già lasciato sul campo molti arrabbiati. Meglio sarebbe stato se tutta questa massa di denaro fosse stata attribuita alle scuole per utilizzarla nelle attività prima elencate, per esempio prevedendo oltre al part-time il full-time e l’apprendimento delle tecniche relative all’uso delle nuove tecnologie. Si è scelto altresì di lasciare i Presidi delle scuole nella più assoluta estraneità su un terreno che li avrebbe dovuto vedere protagonisti significativi della valorizzazione delle professionalità. Il risultato sarà che l’aggiornamento non si farà o si farà male e i problemi sopra accennati non saranno risolti. Nella scuola dell'autonomia sono modificate le esigenze di aggiornamento in servizio dei docenti, perché le loro responsabilità sono aumentate a causa della elaborazione del piano dell’offerta formativa. La formazione in servizio non coincide più con la frequenza sporadica di qualche corso di aggiornamento, interno od esterno alla scuola, ma implica l’adozione di strategie innovative. Ogni docente deve avere diritto ad un proprio percorso personalizzato di sviluppo professionale, mentre ogni scuola - usufruendo di un apposito budget finanziario - dovrebbe mettere a punto un sistema differenziato di opportunità formative per il proprio personale.
Prima di concludere un’ultima osservazione. E’ di poche settimane fa un dibattito fra alcuni giornalisti e il Ministro a proposito della critica mossa agli intellettuali di sinistra per non essere intervenuti a criticare la riforma della scuola su alcuni aspetti di fondo che la riguarda. Il Ministro ha detto che la riforma della scuola in corso ha l’obiettivo di elevare la cultura degli italiani e di indagare sui rapporti tra “l’essenzialità epistemologica” e le “metodologie di apprendimento” delle singole discipline. E’ lecito chiedersi a quale cultura ci si riferisce? Certo non a quella scientifica se immediatamente dopo il Ministero ha avvertito la necessità di aggiungere ai curricoli normali il Progetto SeT su “scienza e tecnologia”. Perché le belle cose presenti in questo progetto non vengono inserite stabilmente e in modo istituzionale nell’impianto generale della Riforma? E poi, a quale essenzialità epistemologica ci si riferisce se si strutturano i curricoli secondari in modo tale che in un intero quinquennio la fisica e le lingue straniere (importantissimi elementi di veicolazione delle idee), discipline ricche di metodologia e di cultura, sono presenti la prima solo un’ora all’anno e le seconde anch’esse per poche ore? Per quanto riguarda la fisica persino la riforma Gentile prevedeva quasi il doppio delle ore della scuola dell’Autonomia. E’ un affronto allo stesso Galileo.
Il fatto è che, come dicevo prima, la persistente visione antiscientifica, particolarmente forte nella cultura di base dei membri delle Istituzioni, porta a questi paradossi: si preme l’acceleratore sull’introduzione delle nuove tecnologie, perché “non se ne può fare a meno”, e poi si lasciano le discipline, pertinenti a questa cultura, a mezz’aria, sospese in un limbo di amara incomprensione e di grave emarginazione. Mi auguro che sopravvenga un ripensamento su queste scelte che non possono non nuocere, così come sono state attualmente definite, alla scuola italiana.
Ma la critica più forte che mi sento di fare in questo momento riguarda la politica governativa verso i docenti. Ricordo che nel programma del governo Prodi c’era l’impegno dell’esecutivo ad aiutare i docenti nella loro indispensabile attività di insegnamento. Come sono andate veramente le cose? La verità è davanti a tutti. Si nota in modo chiaro e inequivocabile:
• l’uso disinvolto del personale docente che viene sistematicamente utilizzato come una moltitudine di persone non in grado di esprimere pareri e suggerimenti capaci di influenzare i processi decisionali;
• la diminuzione sistematica del numero dei docenti in servizio con una ostinata e forzata politica di riduzione del personale del comparto scuola (art.21 della Legge 488 relativa al collegato alla finanziaria 2000);
• l’aumento incontrollato e incontrollabile del numero di allievi per classe che appesantisce la didattica e in ultima analisi diminuisce l’efficacia dell’apprendimento;
• l’aumento incontrollato e incontrollabile alla scuola di nuove attività come l’educazione stradale, l’educazione alla legalità, l’educazione alla cultura multirazziale, l’educazione all’ambiente e via dicendo senza predisporre un solido canale organizzativo-finanziario;
• un orario di servizio dilatato a dismisura senza certezze sugli orari di lavoro;
• il poco tempo rimasto a disposizione per preparare la didattica quotidiana e le importantissime e fondamentali letture di cultura generale che ineriscono all’aggiornamento;
• la mancanza di incentivi fiscali come oneri deducibili relativi all’acquisto di strumenti professionali (acquisto di libri, riviste, software, defiscalizzazione di personal computer, tariffa ridotta di accesso alla rete, CD-ROM, enciclopedie, ecc…);
• una pesante e pericolosa perdita di identità professionale che comporta come conseguenza il considerare la funzione docente come un impiego da ufficio del Catasto dimenticando che la funzione docente ha a che vedere con la fondamentale attività di trasmissione non solo di cultura ma anche di senso, di valori e di idee forti che attengono al significato della vita.

Spero di non avervi tediato troppo e grazie dell’attenzione.
(Roma, 24 Febbraio 2000)

(1)E.Fabri, [Sagredo_ML: 1711], Pisa, 29 Dicembre 1999.
(2)A. Panebianco, Il Corriere della Sera, Anno 2000.
(3)Ibidem;

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