martedì 30 settembre 2003

L’inizio di un romanzo incompiuto.

Una vita perduta(1972)

Capitolo I

Quella sera non era tardi, eppure E. contrariamente alle sue abitudini si mise sulla strada di casa. Il fatto era che non si sentiva tanto bene: un fastidioso raffreddore lo perseguitava da parecchi giorni ed egli, invece di riguardarsi da possibili colpi di freddo, era uscito di casa lo stesso, nonostante la serata fosse fredda e nebbiosa. La fioca luce che filtrava attraverso i lampioni della piazza del paese rischiarava un luogo desolato e solitario. Il vecchio castello, lassù in cima al paese, era illuminato da una debole luce gialla. Le panchine pubbliche della chiesa, i cosiddetti “delfini”, erano vuote e nessuno era seduto là dove di solito, in estate, si sedevano gli amici a chiacchierare fino alle ore piccole della notte. Non c’era nessuno che camminava nella strada e, nella spessa coltre di umidità, E. provò qualche brivido di freddo. Doveva avere la febbre, perché sentiva la fronte calda e avvertiva una certa secchezza alla gola che gli dava particolarmente fastidio.
Il luogo dove egli viveva, la casa dove abitava ed i posti che frequentava erano tutti maledettamente umidi e pericolosi per la sua salute cagionevole. In quel posto dimenticato da chiunque, tutto era sgradevolmente umido, dalle case, vecchie e decrepite, al clima, che tanto ricordava le lande desolate di una brughiera. Il paese, in montagna, si chiamava M. ed era battuto continuamente dal vento e dalle intemperie per dieci mesi all’anno. Molte sere d'inverno venivano trascorse al buio, vicino a qualche piccola candela, mentre fuori infuriava il mal tempo. Il vento ululava in continuazione e mancavano solo i lupi per dare la sensazione di essere fuori dal tempo. Era un posto veramente d’inferno: desolato, triste e opprimente. Mancava spesso la luce elettrica e le strade erano quasi sempre impraticabili, piene di pozzanghere e di buche maleodoranti. Come se non bastasse, M. era diventato un paese spopolato e inesorabilmente predisposto a non avere un futuro. Eppure, una volta non era stato così. M. era stato il fulcro della vita sociale, economica e turistica della zona. Era stato il punto di riferimento, il centro motore economico e civile a causa della presenza di una classe sociale che a quel tempo prosperava ed era rigogliosa: la borghesia. I signorotti che la frequentavano si riunivano soprattutto in estate, a decine, conducendo una vita viziosa e piena di divertimento, giocando a carte la sera e dedicandosi ai pranzi e alle cene con i migliori cibi del luogo. Grande e stridente era il contrasto fra quelle ricche e volgari famiglie facoltose, tutte dedite ai commerci e ai traffici illegali, con quella dei contadini del luogo, che possedevano vecchie casupole semidiroccate nelle quali abitavano tutti i numerosi membri della famiglia. La gente del luogo camminava frettolosamente per la piazza del paese, con passo svelto e sguardo in basso, in atteggiamento servile, salutando continuamente con largo uso del gesto di rispetto del luogo, consistente nel togliersi la “coppola” dalla testa e dicendo meccanicamente “buongiorno a voscienza”.
Nella piazza, i circoli prosperavano: quello dei nobili, dove nessuno si sognava di passare accanto all’entrata per timore di essere rimproverati dai signorotti che stazionavano dietro alle vetrate delle porte, annoiandosi e oziando per tutta la giornata. Il circolo della società operaia, chiuso in se stesso fino alla monotonia. Aveva una grande stanza, con delle poltrone grandi e consumate dal tempo, nelle quali i soci, tutti artigiani indigeni del luogo, si immergevano nella lettura del giornale locale. Il circolo dei civili, frequentato soltanto dai contadini, era una piccola stanza, disadorna, povera ed essenziale, posta agli estremi della piazza, in poszione emarginata, in cui vi era solo un tavolo di legno scadente e una decina di sedie, vecchie. Il circolo di lettura, ricco di una biblioteca e pieno di divani e poltrone damascate, era l’invidia del circondario. A M. quasi nulla era piacevole. Anni e anni di amministrazione comunale disastrosa, di lotte fratricide all’interno delle coalizioni politiche, personalismi beceri, nepotismi e un progressivo spopolamento naturale verso le città, dovuto anche a un considerevole flusso di emigrazione all’estero nella ricca Germania, avevano portato M. al limite della sopravvivenza come comune autonomo. Il paese, da qualche lustro era stato declassato a "villaggio". Nonostante gli sforzi disordinati e inutili dei suoi amministratori, il Comune aveva perduto la caratteristica di centro turistico. La disoccupazione era totale. La gente del luogo riusciva a sopravvivere tra mille difficoltà, perché lavorava in piccoli appezzamenti di terreno nelle lontane campagne del circondario, dove coltivavano il minimo indispensabile per sopravvivere. Gli inverni erano lunghi e freddi e la gente risparmiava su tutto. "Sotto la neve, il pane", si sentiva spesso ripetere dai vecchi del luogo, come una sorta di giustificazione per la vita dura della montagna che accomunava i poveri del paese.
Erano questi i pensieri che affollavano la mente di E. quando era sulla strada di casa e si domandava come era stato possibile che fosse successo proprio a lui di nascere in quel luogo sfortunato e dimenticato da tutti. Passando davanti al circolo di lettura dei nobili (o per meglio dire quello che era stato dei nobili, perché adesso vi erano i nuovi soci, rozzi e ignoranti, che rappresentavano il “nuovo” del paese) buttò uno sguardo distratto e frettoloso all’interno, sapendo bene che avrebbe visto al massimo il professore D. che leggeva il giornale. Il prof. D. era infatti sprofondato in una poltrona, tutto solo, che leggeva per l’ennesima volta il solito settimanale come soleva fare ogni volta che usciva di casa per trascorrere la lunga serata al circolo. E., oltrepassò così l’ultima porta del circolo e si avvicinò al bar, ma anche qui, lo spettacolo era sempre lo stesso, prevedibile e monotono come sempre. Poche luci accese, una stufa a gas in funzione al minimo e il proprietario, il Commendatore P. che in un angolo accarezzava il suo cane Flock. E. mormorò tra sé, se quello era il posto dove doveva nascere, vivere e, forse, morire. Quante cose desiderava in quel momento che non aveva mai avuto: l’amore puro e vero di una donna, l’amicizia disinteressata e solidale di qualche compagno, l’esistenza di alcuni locali piacevoli dove divertirsi, una moto per usarla al solo scopo di evadere da quel triste posto quando ne aveva voglia e, soprattutto, l'agognato diploma per concludere i suoi studi. Perché, si domandava, queste cose a lui erano state e continuavano ad essere negate? Perché proprio a lui non riusciva niente di buono nella vita? Perché? Ma erano tutte domande che nonostante li avesse poste a se stesso molte volte, non avevano mai avuto una risposta. Fin dall’adolescenza aveva intuito quali gioie avrebbe potuto dare la vita se fosse riuscito a evadere da quel calvario di paesino sperduto sui monti. Aveva superato i ventisei anni e da sempre non trovava alcuna risposta ai suoi interrogativi, ai mille perché che la vita continuamente prospettava a chiunque si fosse posto domande di senso sulla vita. Cosa fare? Ma un altro brivido di freddo lo riportò alla triste realtà. Doveva affrettarsi, perchè faceva veramente freddo. Appena arrivato a casa, avrebbe dovuto addormentarsi subito, oppure leggere qualche pagina del libro che stava posato sul suo comodino come livre de chevet? Neanche qui era sicuro di ciò che avrebbe fatto appena sarebbe arrivato in camera. Aprì la porta di casa e vide che la madre stava ancora lavorando. La madre cuciva vestiti per arrotondare la striminzita pensione del padre di E. Era sempre lì, poveretta, a cucire, dalla mattina alla sera. Anzi, dalla mattina a notte fonda. Il mestiere di sarta l’assorbiva completamente per guadagnare qualche soldo ed ella dedicava tutto il tempo e le fatiche della giornata al lavoro, nella segreta speranza che un giorno sarebbe stata ripagata dal figlio con un’altra vita, lontano dal paese, in città dai suoi cugini. E. salutò la madre e si congedò subito dicendo che aveva intenzione di dormire ed auguratale la buonanotte si diresse verso la sua camera. La trovò come al solito squallida, fredda e triste. Con le pareti scalcinate ed alcuni maglioni posti sulla sedia, sembrava un ricovero per bombardamenti in tempo di guerra. Però era l’unico posto dove E. poteva sognare il suo futuro, dove il tempo sembrava fermarsi e dove, soprattutto, poteva meditare sull’umana ingiustizia. La vecchia e scadente scrivania era coperta di polvere e si notava in maniera lampante la mancanza di cura e della presenza di una mano femminile. Il posacenere, ingombrato di cicche, la cartina geografica dell’Inghilterra sporca dal tempo ed i libri accuratamente posti sui ripiani della libreria svedese erano il panorama quotidiano che si presentava agli occhi di E. sempre più infreddolito. Quale tristezza lo riempiva quando entrava in quella stanza. Quanti desideri insoddisfatti, quanti ricordi, quante speranze deluse lo circondavano osservando tutti quei ninnoli disseminati sui ripiani. Il portacandele rosso a forma di icosaedro appuntito, la vecchia coppa vinta dal fratello nella prova provinciale del tema di italiano, il porta confetti blu a forma di coppa e il vocabolario Melzi nel suo cofanetto vecchio e consumato negli anni. Ah! Quando sarebbe finita quella prigionia? Quando sarebbe svanita quella atmosfera di oppressione che si sentiva nell’aria vivendo ore d’inferno fra quelle quattro mura fredde e vuote? E. cominciò lentamente a spogliarsi, rifacendo mentalmente le stesse operazioni che da anni, in maniera ripetitiva, faceva sempre quando andava a letto la sera. Ripose i pantaloni in maniera disordinata sullo stiracalzoni Reguitti, si tolse il maglione buttandolo sulla poltrona e indossò il pigiama a righe di fustagno. Accese la lampada da notte e si infilò nel letto. Le lenzuola erano ghiacciate e riprese a rabbrividire. No! Pensò. Quella sera non avrebbe letto. Era stanco e non si sentiva bene. Spense la luce e chiuse gli occhi. Cominciò a pensare come avrebbe potuto essere la sua vita se avesse vinto alla lotteria. Fece alcuni conti di quanto denaro gli servisse per vivere alla grande e fantasticò ancora un poco. Di nuovo alcuni brividi di freddo lo percorsero lungo tutto il corpo e riaprì gli occhi. Un sottile pennello di luce filtrava sotto la porta, dandogli immensamente fastidio. E. gridò: “mamma, chiudi la porta”! Sua madre si precipitò spegnendogli la luce del corridoio e chiudendo accuratamente la fessura della porta che faceva entrare una fredda e umida corrente d’aria dalle scale. Fuori la pioggia scrosciava abbondante, forse allegramente, forse tristemente. E. non sapeva mai quale sentimento provava quando pioveva. Questa insicurezza se la portava appresso da sempre, producendo dannose ossessioni e rendendogli la vita penosa e senza fiducia. Forse più per la stanchezza che per altro, trovò finalmente la giusta posizione nel letto e si addormentò. Chissà quale sogni avrebbe fatto quella notte!


Capitolo II


Era giorno pieno quando E. si svegliò e contrariamente a quello che avrebbe dovuto fare alzandosi subito dal letto, rimase in posizione inerte. Si mise a pensare come avrebbe occupato la rimanente parte della mattinata. Non che non avesse da fare nulla, perché di tempo per studiare ne avrebbe avuto bisogno per anni interi. Ma il fatto che avesse radicato in sé l’abitudine di non studiare mai la mattina non era mai disponibile alla fatica. Lo raggiunsero i rintocchi della campana dell’orologio della Chiesa, annunciandogli che erano già le dodici e un quarto, ma lui infischiandosene degli orologi e del tempo cadenzato dagli orologi delle chiese, fece per riaddormentarsi, quando la porta della sua stanza si aprì e sua madre entrò. “E. è tardi, alzati. Gli esami all’università si avvicinano e tu ancora non hai fatto niente”. “Va bene mi alzo”, mormorò con un tono irritato, come per dire : “ma a me non importa nulla”. Sua madre, consapevole che non avrebbe raggiunto mai lo scopo di farlo studiare la mattina, uscì dalla stanza e si diresse in cucina. E. si alzò, ed entrò in bagno per lavarsi, ma un rapido sguardo allo specchio gli fece ricordare la sua triste condizione. Un fallito! Non poteva non essere che un fallito! Cosa avrebbe potuto fare nella vita un tipo come lui? L’acqua fresca del rubinetto gli snebbiò le idee, ritemprandolo un po’ e facendogli dimenticare quei pensieri che nei momenti di solitudine lo assalivano divorandolo. Si vestì in fretta, mangiò una fetta di pane di corsa e uscì per andare a trovare gli amici al bar.

sabato 27 settembre 2003

Circola in Italia un parlamentare della maggioranza che va dicendo: "Le mie dimissioni? Un falso. Mi piace prendere in giro l'opposizione"!

A Roma in questi giorni è diventata realtà la favoletta del pastore che grida: "al lupo, al lupo"! L'autore è l'Avv. Taormina, parlamentare del partito Forza Italia, nonchè famoso avvocato difensore in molti processi. Questo stranissimo e atipico parlamentare, che quando parla assume sempre il tono rissoso di un individuo che sembra essere arrabbiato con tutto il mondo, inventa una falsa notizia che si riferisce alle sue dimissioni dal Parlamento e poi la smentisce. In pratica funziona così: l'on. Taormina afferma una notizia importante, la comunica alla stampa e fa di tutto per far credere che essa sia vera. Aspetta qualche giorno e subito dopo aver verificato che i media e l'opposizione politica ci hanno creduto, fa un annuncio shock, affermando che lui aveva scherzato. Diciamo la verità: l'On. Taormina è un giocherellone che ci ricorda un po' quel pastore che diceva, sempre per scherzare, al lupo, al lupo! Alla fine il lupo se lo mangia davvero senza che gli altri se ne accorgano, a causa della pessima maniera di raccontare frottole. Ora, mentre l'On. Taormina può scherzare quanto vuole, noi desidereremmo che non ci coinvolgesse nei suoi stupidi e puerili scherzi. Già nella politica italiana c'è troppa poca serietà : se poi ci si mette anche lui a raccontare frottole noi rischiamo di morire. Ma non di scherzi: c'è da morire di vergogna per un paese che è rappresentato da parlamentari che invece di fare gli interessi dei cittadini, raccontano invenzioni!

mercoledì 24 settembre 2003

Una caduta di stile.

Ieri sera il presidente del Consiglio Berlusconi è stato negli Stati Uniti per effettuare un intervento molto importante alle Nazioni Unite nella veste di Presidente dell'Unione Europea. Ha parlato per circa 20 minuti alla presenza di centinaia di Capi di Stato presenti nell'aula dell'ONU dicendo cose interessanti, condivisibili e piene di buonsenso. Due aspetti di questa faccenda mi hanno negativamente colpito: il primo è la vistosa assenza di collegamenti radiotelevisivi in diretta del nostro costoso servizio pubblico e il secondo è l'assordante silenzio dei media e dell'opposizione in relazione al contenuto delle cose dette da Berlusconi. Mi dispiace profondamente che i fatti si siano svolti in questo modo e provo tanta pena per il verificarsi del solito deteriore comportamento dei parlamentari e della stampa che fanno opposizione al governo Berlusconi. Non credo che nè la televisione, nè la carta stampata abbiano fatto bella figura a oscurare l'intervento del Presidente del Consiglio. Credo che si sia trattato non solo di una caduta di bon ton, ma di una pericolosa invidia provata dall'opposizione che non fa onore a chi aspira a essere un futuro antagonista del governo. Mi dispiace, ma credo che l'Ulivo comincia male il progetto politico che sta tentando di mettere in atto per ridare credibilità alla politica dell'opposizione. Questa caduta di stile il centro sinistra poteva proprio risparmiarsela. In certe situazioni, tra tante perle e colossali abbagli presi dal Presidente del Consiglio, riconoscere all'avversario un merito che egli si e' conquistato sul campo è un dovere per chi aspira a essere preso sul serio. Per i dirigenti della Rai che non hanno permesso agli italiani di sentire e vedere il Capo del governo non ho parole. A fronte di spettacolini indecenti e di second'ordine che quotidianamente la RAI ci propina, e' irritante l'impudenza di questi dilettanti del video nel chiedere di pagare un canone che essi certamente non meritano.

domenica 14 settembre 2003

Ecco l'Italia dei furbi e quella degli stupidi.

Il Governo è intenzionato a varare una scellerata sanatoria edilizia mediante un vero e proprio condono generale per tutti gli abusi commessi nel mondo delle costruzioni abitative fino a tutto il 2002. La ragione è che intende raggranellare qualche miliardo di € perché, come si dice in questi casi, si trova “sul lastrico”. Anche se dal punto di vista finanziario e monetario il Governo ha molte ragioni per varare il provvedimento, non è mia intenzione dibattere la questione da questi punti di vista. Dunque, tutto risolto? Un momento, vediamo meglio qual'è l'oggetto del contendere. La questione sembra semplice: si tratta di eliminare delle illegalità commesse in precedenza e sperare che in futuro non si verifichino più. Ma è qui che si pone un problema molto delicato che è allo stesso tempo "politico" ed "etico". Il problema politico si pone nel momento in cui si considera il metodo adoperato dal Governo per reperire il denaro di cui ha bisogno. Non credo che sia corretta e adeguata la politica di una maggioranza di governo che opera in modo tale da non impegnarsi adeguatamente, con i propri organi di controllo, a stroncare l'illegalità prima che venga commessa in modo tale che in un secondo tempo non si costringa chi ha commesso l'illecito a pagare una tassa, chiamata condono, per eliminare la disonestà commessa. Ma vi rendete conto di quanto sia pazzesca questa scellerata maniera di ragionare? Cioè si permette che moltissimi cittadini commettano la illegalità e poi, in un secondo momento, si invitano i medesimi cittadini a sanare la stessa illegalità. Ma allora le Autorità che ci stanno a fare se non sono in grado di evitare che si commettano i reati? E in ogni caso, perchè non si distruggono subito, dopo poche settimane o al massimo alcuni mesi, le costruzioni tirate su, magari in una notte, illegalmente? Evidentemente c'è qualcosa che non va in questo ragionamento del Governo. Non si è mai vista in tutta l'Europa una modalità di fare politica di questo tipo. Si sperava che questo Governo, diversamente dai precedenti, avesse in animo di agire correttamente per fare rispettare la legalità premiando gli onesti. Invece, si deve prendere atto, con sconforto, che siamo sempre alle solite. Non c'è da fidarsi di nessuno: cento-sinistra o centro-destra che siano operano sempre alla stessa maniera. Ciò che il Presidente del Consiglio non comprende è che così operando si realizza una politica economica che favorisce i furbi che rovinano l'ambiente e non pagano le tasse. Si premia chi trasgredisce piuttosto che chi segue la legge.
Dal punto di vista etico e morale poi il provvedimento è di una gravità inaudita, perchè si sceglie forzatamente la strada di agevolare chi commette un reato a danno di coloro che non lo compiono. Non si è mai vista in tutto il mondo una scelta cosi' infelice e disgraziata come quella che il Governo sta prendendo in considerazione in questi giorni per fare cassa. Invece di perseguire i mascalzoni che fanno i furbi aggirando la legge si mettono in atto provvedimenti legislativi precari volti ad aiutare i professionisti della speculazione. Le sanatorie sull'abusivismo rappresentano la quintessenza delle più efficaci mascalzonate che gli italiani sono in grado di commettere da veri e propri artisti.
Possiamo dire che siamo preoccupati per questo modo di agire?

mercoledì 3 settembre 2003

Finalmente. Arrivano i soldi per la scuola privata.

*E' un fatto di equità*. E' questa la sintetica dichiarazione del Ministro della Pubblica Istruzione ascoltata la sera del 3 Settembre 2003 al telegiornale subito dopo l'emissione del Decreto con il quale il Governo ha stanziato dei fondi a favore delle famiglie che intendono iscrivere i loro figli alla scuola privata piuttosto che a quella statale. Il caso merita alcune riflessioni per permettere di capire meglio e criticamente del perchè questo paese si trova cosi’ malridotto sul piano dei diritti, della giustizia e dell’uguaglianza. La prima osservazione che mi sento di proporre riguarda il fatto che di per sè il caso non dovrebbe scandalizzare nessuno. Non è la prima volta che un governo decide di privilegiare una categoria di persone. Quante volte i governi di centro-sinistra del passato hanno emanato leggi, decreti, ordinanze, circolari e bozze normative piu' o meno ufficiali piene di agevolazioni in favore di determinate categorie di lavoratori alla luce di un'impostazione politica che aiuta certe classi sociali piuttosto che altre. Dunque, la prima reazione che emerge da una prima lettura del decreto è di legittimità del provvedimento, almeno dal punto di vista politico. Non posso entrare nel merito della legittimità giuridica perchè non conosco il testo del decreto e non so come procederà la successiva discussione in Parlamento. Mi attengo pertanto ai dati in mio possesso affermando a chiare lettere che il Governo è legittimato a emanare il provvedimento. Non ha senso dichiarare illegittimo un provvedimento che merita una valutazione che è politica e solo politica. Dunque, da questo punto di vista non trovo scandaloso regalare alla scuola privata dei finanziamenti. Certo, comincio a essere perplesso quando vedo il metodo con il quale il Governo ha emanato il provvedimento. Di grazia, perchè un decreto? E' cosi' maledettamente urgente far entrare subito in funzione la norma? E perchè? Non si capiscono le ragioni. Possibile che altri provvedimenti più urgenti subiscono un iter parlamentare paralizzante mentre quello della scuola merita tanta urgenza? Francamente non trovo motivazioni di nessun genere per legittimare il metodo scelto dal Governo. In secondo luogo, non si comprende perchè ai genitori che intendono iscrivere i propri figli alla scuola privata si danno dei contributi mentre ai genitori che intendono iscrivere i propri figli alla scuola statale no. Penso che il provvedimento pecca di parzialità perchè fa una scelta da *due pesi e due misure*. E poi per quale ragione si danno i finanziamenti a tutti, senza tenere conto del limite di reddito percepito? Francamente, se fossi un industriale ricco e senza problemi economici mi sentirei offeso se un Governo mi dicesse che vuole pagarmi la retta scolastica di mio figlio come se fossi un qualunque anonimo impiegato del catasto. Dunque, non si capisce perchè il decreto si rivolge indistintamente a tutti i cittadini, ricchi e poveri, nessuno escluso. Queste perplessità, aumentano nel momento in cui si nota che il provvedimento non riesce a difendere per niente la sfera della libertà dei genitori di alunni della scuola statale di pretendere dallo Stato per i propri figli un'educazione decisa da loro. In altre parole sono del parere che il decreto sia stato fatto più per ingraziarsi l'elettorato di centro-destra e della Chiesa cattolica che per un'autentica vocazione di libertà delle famiglie a decidere della educazione da dare ai propri figli. Quali conclusioni trarre da questa decisione? Semplice, continuano le conferme della inadeguatezza della classe politica attuale. La ragione è dovuta al fatto che da un lato, si effettuano interventi normativi al limite della scorrettezza costituzionale, in modo confuso e velleitario. Dall'altra, la decisione presa acquista la sua giustificazione alla luce del clima culturale che si respira nelle scuole statali dove la sinistra, egemonizzando gli organi collegiali e gli organi istituzionali, impedisce illegittimamente alle famiglie di vedere i propri figli ricevere una educazione coerente con le loro scelte educative. E come al solito emerge che sono perdenti entrambe le posizioni di chi, cioè, da un lato, in modo scaltro e astuto, tira fuori dal cappello a cilindro soluzioni pasticciate e illusorie (non si risolvono i problemi della scuola privata con un finanziamento inadeguato sia sul piano finanziario, sia sul piano dei principi e della uguaglianza) e dall'altro di chi finora ha impedito nella scuola statale una educazione svincolata dai condizionamenti politici di tipo marxista e viceversa ha sempre privilegiato l'opzione dell'assemblearismo (vedi occupazioni violente delle scuole da parte dei gruppi militanti della sinistra) e della distruzione del sistema educativo preesistente senza averlo prima sostituito con un altro adeguato. Come al solito chi perde sempre in questa contesa è la società tutta, che vede sempre piu' allontanarsi dall’orizzonte una scuola al servizio dell'uomo nella sua piu' totale libertà.

martedì 2 settembre 2003

La patente a punti e gli italiani.

Da quando è stata introdotta la patente a punti ed inasprite le sanzioni contro i furbi per i comportamenti scorretti nella guida
di un'automobile, anche i sassi si sono resi conto che la sicurezza nella guida è migliorata molto. Si calcola che saranno migliaia le vite umane salvate dalla morte dopo l'introduzione del provvedimento approvato dal Parlamento. In piu', si valuta positivamente la diminuzione degli incidenti stradali che fara' risparmiare tutti, automobilisti e assicurazioni. Dunque, tutto bene? Non proprio. Se fermiamo la nostra attenzione su questo solo fatto direi di si! Ma se volgiamo lo sguardo ad altri settori importanti della vita sociale del paese, allora mi sento di dire che le cose non vanno proprio bene. E' necessario riconoscere al Parlamento il merito di avere legiferato bene in questo settore. Ricordo ai distratti, tuttavia, che la vita di una nazione non e' costituta solo di patenti automobilistiche. Vi e' molto di piu'. Esistono tanti altri settori che meriterebbero leggi analoghe se non piu' severe. Per esempio perche' non si introduce una patente a punti nel campo dei reati contro il patrimonio? E perche' no, anche nel campo del tifo calcistico, che rappresenta uno degli aspetti piu' delicati della sicurezza pubblica, in cui la violenza negli stadi assume aspetti di inaudita' gravita'? E, più in generale, nel settore del commercio che ne dite? Insomma, perche' nel campo automobilistico si e in altri settori, altrettanto importanti, no? Si potrebbe pensare, per esempio, di togliere 15 punti a quel commerciante disonesto che vende prodotti scaduti; oppure 5 punti se omette di inserire la provenienza di un prodotto esposto sul banco o nella vetrina del suo negozio. E ancora, 20 punti con il ritiro della licenza se il barista di un esercizio alimentare da' a un cliente un bicchiere d'acqua contenente prodotti chimici nocivi in grado di avvelenare una persona. In questo modo in un solo colpo si toglierebbe a questa gentaglia, che vive sulle difficoltà altrui, la possibilità di nuocere. E si potrebbe continuare ancora con altri 20 punti e conseguente impedimento a frequentare gli stadi calcistici al tifoso che porta allo stadio un oggetto contundente in grado di produrre offese agli altri, e cosi' via.Io credo che l'arma della patente a punti sia un ottimo deterrente per migliorare la vita nel nostro paese degli italiani. In genere, un italiano controllato da chi ha la responsabilità di garantire la sicurezza della popolazione, è un coniglio. Se finora ha nuociuto alla gente è perchè gli è stato permesso da leggi legaliste e perdoniste a continuare a offendere gli altri. Dubito però che i tratti caratteristici di questo popolo potranno cambiare in meglio.

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