martedì 30 settembre 2003

L’inizio di un romanzo incompiuto.

Una vita perduta(1972)

Capitolo I

Quella sera non era tardi, eppure E. contrariamente alle sue abitudini si mise sulla strada di casa. Il fatto era che non si sentiva tanto bene: un fastidioso raffreddore lo perseguitava da parecchi giorni ed egli, invece di riguardarsi da possibili colpi di freddo, era uscito di casa lo stesso, nonostante la serata fosse fredda e nebbiosa. La fioca luce che filtrava attraverso i lampioni della piazza del paese rischiarava un luogo desolato e solitario. Il vecchio castello, lassù in cima al paese, era illuminato da una debole luce gialla. Le panchine pubbliche della chiesa, i cosiddetti “delfini”, erano vuote e nessuno era seduto là dove di solito, in estate, si sedevano gli amici a chiacchierare fino alle ore piccole della notte. Non c’era nessuno che camminava nella strada e, nella spessa coltre di umidità, E. provò qualche brivido di freddo. Doveva avere la febbre, perché sentiva la fronte calda e avvertiva una certa secchezza alla gola che gli dava particolarmente fastidio.
Il luogo dove egli viveva, la casa dove abitava ed i posti che frequentava erano tutti maledettamente umidi e pericolosi per la sua salute cagionevole. In quel posto dimenticato da chiunque, tutto era sgradevolmente umido, dalle case, vecchie e decrepite, al clima, che tanto ricordava le lande desolate di una brughiera. Il paese, in montagna, si chiamava M. ed era battuto continuamente dal vento e dalle intemperie per dieci mesi all’anno. Molte sere d'inverno venivano trascorse al buio, vicino a qualche piccola candela, mentre fuori infuriava il mal tempo. Il vento ululava in continuazione e mancavano solo i lupi per dare la sensazione di essere fuori dal tempo. Era un posto veramente d’inferno: desolato, triste e opprimente. Mancava spesso la luce elettrica e le strade erano quasi sempre impraticabili, piene di pozzanghere e di buche maleodoranti. Come se non bastasse, M. era diventato un paese spopolato e inesorabilmente predisposto a non avere un futuro. Eppure, una volta non era stato così. M. era stato il fulcro della vita sociale, economica e turistica della zona. Era stato il punto di riferimento, il centro motore economico e civile a causa della presenza di una classe sociale che a quel tempo prosperava ed era rigogliosa: la borghesia. I signorotti che la frequentavano si riunivano soprattutto in estate, a decine, conducendo una vita viziosa e piena di divertimento, giocando a carte la sera e dedicandosi ai pranzi e alle cene con i migliori cibi del luogo. Grande e stridente era il contrasto fra quelle ricche e volgari famiglie facoltose, tutte dedite ai commerci e ai traffici illegali, con quella dei contadini del luogo, che possedevano vecchie casupole semidiroccate nelle quali abitavano tutti i numerosi membri della famiglia. La gente del luogo camminava frettolosamente per la piazza del paese, con passo svelto e sguardo in basso, in atteggiamento servile, salutando continuamente con largo uso del gesto di rispetto del luogo, consistente nel togliersi la “coppola” dalla testa e dicendo meccanicamente “buongiorno a voscienza”.
Nella piazza, i circoli prosperavano: quello dei nobili, dove nessuno si sognava di passare accanto all’entrata per timore di essere rimproverati dai signorotti che stazionavano dietro alle vetrate delle porte, annoiandosi e oziando per tutta la giornata. Il circolo della società operaia, chiuso in se stesso fino alla monotonia. Aveva una grande stanza, con delle poltrone grandi e consumate dal tempo, nelle quali i soci, tutti artigiani indigeni del luogo, si immergevano nella lettura del giornale locale. Il circolo dei civili, frequentato soltanto dai contadini, era una piccola stanza, disadorna, povera ed essenziale, posta agli estremi della piazza, in poszione emarginata, in cui vi era solo un tavolo di legno scadente e una decina di sedie, vecchie. Il circolo di lettura, ricco di una biblioteca e pieno di divani e poltrone damascate, era l’invidia del circondario. A M. quasi nulla era piacevole. Anni e anni di amministrazione comunale disastrosa, di lotte fratricide all’interno delle coalizioni politiche, personalismi beceri, nepotismi e un progressivo spopolamento naturale verso le città, dovuto anche a un considerevole flusso di emigrazione all’estero nella ricca Germania, avevano portato M. al limite della sopravvivenza come comune autonomo. Il paese, da qualche lustro era stato declassato a "villaggio". Nonostante gli sforzi disordinati e inutili dei suoi amministratori, il Comune aveva perduto la caratteristica di centro turistico. La disoccupazione era totale. La gente del luogo riusciva a sopravvivere tra mille difficoltà, perché lavorava in piccoli appezzamenti di terreno nelle lontane campagne del circondario, dove coltivavano il minimo indispensabile per sopravvivere. Gli inverni erano lunghi e freddi e la gente risparmiava su tutto. "Sotto la neve, il pane", si sentiva spesso ripetere dai vecchi del luogo, come una sorta di giustificazione per la vita dura della montagna che accomunava i poveri del paese.
Erano questi i pensieri che affollavano la mente di E. quando era sulla strada di casa e si domandava come era stato possibile che fosse successo proprio a lui di nascere in quel luogo sfortunato e dimenticato da tutti. Passando davanti al circolo di lettura dei nobili (o per meglio dire quello che era stato dei nobili, perché adesso vi erano i nuovi soci, rozzi e ignoranti, che rappresentavano il “nuovo” del paese) buttò uno sguardo distratto e frettoloso all’interno, sapendo bene che avrebbe visto al massimo il professore D. che leggeva il giornale. Il prof. D. era infatti sprofondato in una poltrona, tutto solo, che leggeva per l’ennesima volta il solito settimanale come soleva fare ogni volta che usciva di casa per trascorrere la lunga serata al circolo. E., oltrepassò così l’ultima porta del circolo e si avvicinò al bar, ma anche qui, lo spettacolo era sempre lo stesso, prevedibile e monotono come sempre. Poche luci accese, una stufa a gas in funzione al minimo e il proprietario, il Commendatore P. che in un angolo accarezzava il suo cane Flock. E. mormorò tra sé, se quello era il posto dove doveva nascere, vivere e, forse, morire. Quante cose desiderava in quel momento che non aveva mai avuto: l’amore puro e vero di una donna, l’amicizia disinteressata e solidale di qualche compagno, l’esistenza di alcuni locali piacevoli dove divertirsi, una moto per usarla al solo scopo di evadere da quel triste posto quando ne aveva voglia e, soprattutto, l'agognato diploma per concludere i suoi studi. Perché, si domandava, queste cose a lui erano state e continuavano ad essere negate? Perché proprio a lui non riusciva niente di buono nella vita? Perché? Ma erano tutte domande che nonostante li avesse poste a se stesso molte volte, non avevano mai avuto una risposta. Fin dall’adolescenza aveva intuito quali gioie avrebbe potuto dare la vita se fosse riuscito a evadere da quel calvario di paesino sperduto sui monti. Aveva superato i ventisei anni e da sempre non trovava alcuna risposta ai suoi interrogativi, ai mille perché che la vita continuamente prospettava a chiunque si fosse posto domande di senso sulla vita. Cosa fare? Ma un altro brivido di freddo lo riportò alla triste realtà. Doveva affrettarsi, perchè faceva veramente freddo. Appena arrivato a casa, avrebbe dovuto addormentarsi subito, oppure leggere qualche pagina del libro che stava posato sul suo comodino come livre de chevet? Neanche qui era sicuro di ciò che avrebbe fatto appena sarebbe arrivato in camera. Aprì la porta di casa e vide che la madre stava ancora lavorando. La madre cuciva vestiti per arrotondare la striminzita pensione del padre di E. Era sempre lì, poveretta, a cucire, dalla mattina alla sera. Anzi, dalla mattina a notte fonda. Il mestiere di sarta l’assorbiva completamente per guadagnare qualche soldo ed ella dedicava tutto il tempo e le fatiche della giornata al lavoro, nella segreta speranza che un giorno sarebbe stata ripagata dal figlio con un’altra vita, lontano dal paese, in città dai suoi cugini. E. salutò la madre e si congedò subito dicendo che aveva intenzione di dormire ed auguratale la buonanotte si diresse verso la sua camera. La trovò come al solito squallida, fredda e triste. Con le pareti scalcinate ed alcuni maglioni posti sulla sedia, sembrava un ricovero per bombardamenti in tempo di guerra. Però era l’unico posto dove E. poteva sognare il suo futuro, dove il tempo sembrava fermarsi e dove, soprattutto, poteva meditare sull’umana ingiustizia. La vecchia e scadente scrivania era coperta di polvere e si notava in maniera lampante la mancanza di cura e della presenza di una mano femminile. Il posacenere, ingombrato di cicche, la cartina geografica dell’Inghilterra sporca dal tempo ed i libri accuratamente posti sui ripiani della libreria svedese erano il panorama quotidiano che si presentava agli occhi di E. sempre più infreddolito. Quale tristezza lo riempiva quando entrava in quella stanza. Quanti desideri insoddisfatti, quanti ricordi, quante speranze deluse lo circondavano osservando tutti quei ninnoli disseminati sui ripiani. Il portacandele rosso a forma di icosaedro appuntito, la vecchia coppa vinta dal fratello nella prova provinciale del tema di italiano, il porta confetti blu a forma di coppa e il vocabolario Melzi nel suo cofanetto vecchio e consumato negli anni. Ah! Quando sarebbe finita quella prigionia? Quando sarebbe svanita quella atmosfera di oppressione che si sentiva nell’aria vivendo ore d’inferno fra quelle quattro mura fredde e vuote? E. cominciò lentamente a spogliarsi, rifacendo mentalmente le stesse operazioni che da anni, in maniera ripetitiva, faceva sempre quando andava a letto la sera. Ripose i pantaloni in maniera disordinata sullo stiracalzoni Reguitti, si tolse il maglione buttandolo sulla poltrona e indossò il pigiama a righe di fustagno. Accese la lampada da notte e si infilò nel letto. Le lenzuola erano ghiacciate e riprese a rabbrividire. No! Pensò. Quella sera non avrebbe letto. Era stanco e non si sentiva bene. Spense la luce e chiuse gli occhi. Cominciò a pensare come avrebbe potuto essere la sua vita se avesse vinto alla lotteria. Fece alcuni conti di quanto denaro gli servisse per vivere alla grande e fantasticò ancora un poco. Di nuovo alcuni brividi di freddo lo percorsero lungo tutto il corpo e riaprì gli occhi. Un sottile pennello di luce filtrava sotto la porta, dandogli immensamente fastidio. E. gridò: “mamma, chiudi la porta”! Sua madre si precipitò spegnendogli la luce del corridoio e chiudendo accuratamente la fessura della porta che faceva entrare una fredda e umida corrente d’aria dalle scale. Fuori la pioggia scrosciava abbondante, forse allegramente, forse tristemente. E. non sapeva mai quale sentimento provava quando pioveva. Questa insicurezza se la portava appresso da sempre, producendo dannose ossessioni e rendendogli la vita penosa e senza fiducia. Forse più per la stanchezza che per altro, trovò finalmente la giusta posizione nel letto e si addormentò. Chissà quale sogni avrebbe fatto quella notte!


Capitolo II


Era giorno pieno quando E. si svegliò e contrariamente a quello che avrebbe dovuto fare alzandosi subito dal letto, rimase in posizione inerte. Si mise a pensare come avrebbe occupato la rimanente parte della mattinata. Non che non avesse da fare nulla, perché di tempo per studiare ne avrebbe avuto bisogno per anni interi. Ma il fatto che avesse radicato in sé l’abitudine di non studiare mai la mattina non era mai disponibile alla fatica. Lo raggiunsero i rintocchi della campana dell’orologio della Chiesa, annunciandogli che erano già le dodici e un quarto, ma lui infischiandosene degli orologi e del tempo cadenzato dagli orologi delle chiese, fece per riaddormentarsi, quando la porta della sua stanza si aprì e sua madre entrò. “E. è tardi, alzati. Gli esami all’università si avvicinano e tu ancora non hai fatto niente”. “Va bene mi alzo”, mormorò con un tono irritato, come per dire : “ma a me non importa nulla”. Sua madre, consapevole che non avrebbe raggiunto mai lo scopo di farlo studiare la mattina, uscì dalla stanza e si diresse in cucina. E. si alzò, ed entrò in bagno per lavarsi, ma un rapido sguardo allo specchio gli fece ricordare la sua triste condizione. Un fallito! Non poteva non essere che un fallito! Cosa avrebbe potuto fare nella vita un tipo come lui? L’acqua fresca del rubinetto gli snebbiò le idee, ritemprandolo un po’ e facendogli dimenticare quei pensieri che nei momenti di solitudine lo assalivano divorandolo. Si vestì in fretta, mangiò una fetta di pane di corsa e uscì per andare a trovare gli amici al bar.

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