mercoledì 12 marzo 2014

Amour, un film calvario per gli spettatori.


Oggi desideriamo parlare di un film, di un grande film, vincitore di molti premi internazionali che definire straziante è poco. Non stiamo esagerando. Il tema è l’amore, la malattia e l’eutanasia. Vogliamo parlarne perché il film è un autentico capolavoro della cinematografia europea che merita attenzione in quanto tratta un tema delicato, complesso e al tempo stesso di scottante attualità. E' stato scritto e diretto da Michael Haneke, noto regista austriaco, ed è interpretato magistralmente dalla splendida coppia di ottuagenari francesi Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva. Il film lo abbiamo visto due volte e siamo del parere che dovrebbe essere rivisto una terza volta per evitare di dare un giudizio affrettato. Questa recensione è pertanto incompleta e forse poco adeguata. Un vecchio maestro della scuola elementare del mio paese soleva dire che un film dovrebbe essere visto tre volte. La prima volta distrattamente. La seconda volta facendo attenzione a comprendere i particolari della trama e i diversi piani del suo contenuto. La terza per dare un giudizio di valore e nello stesso tempo trovare similitudini ed analogie con altre opere cinematografiche o romanzi letterari che possano permettere riflessioni di un certo spessore. Riconosciamo che il proposito è ambizioso e d'altra parte non mancano seri motivi per parlarne. In rete e sulla stampa c’è molta prudenza a non svelare il finale del film. Spesso si nota una esagerata attenzione a non parlarne troppo, perché il tema è scottante. Comprendiamo che non è corretto parlare di un film e comunicarne il finale a chi non l’ha visto perché si annulla l’elemento sorpresa. Ma ciò che non possiamo accettare è che con questa scusa si nasconde il tema dell’eutanasia volontaria dietro il timore di svelarne la parte finale. Ebbene, noi vogliamo andare controcorrente. Anticipiamo dunque la conclusione che si può trarre dall'analisi del contenuto e diciamo subito che il tema di fondo è la "soluzione" al problema dei malati terminali. Nel caso specifico è l’eutanasia volontaria della moglie (dal greco buona morte) e il conseguente suicidio del marito. Dunque, sfatiamo il fatto che la trama riguarda solo il tema della malattia di un’anziana professoressa di musica in pensione. E’ anche questo, ma non è solo questo. Dopo l’insorgere della malattia il vero filo conduttore del film è la questione della prospettiva di una vita di emarginazione, di solitudine e di sofferenza che prepara alla morte l'anziana donna oppressa da continue afflizioni e con le sue difficoltà fisiche e psicologiche dovute al suo status di anziana ammalata che si trova a vivere gli ultimi anni della sua vita nella società contemporanea. Georges e Anne, questi sono i loro due nomi, con la malattia di Anne, sperimentano cosa significhi essere vecchi e malati in una società che ha abbandonato alla deriva valori e solidarietà per gli anziani al limite della autosufficienza e che fa precipitare sempre più in una spirale di cinismo, egoismo e indifferenza la loro esistenza. Georges ama la moglie Anne. I due fanno una vita da pensionati, come è giusto che sia alla loro età. Il tran tran quotidiano viene purtroppo interrotto dall’imprevedibile ictus che la moglie subisce una prima volta all’inizio della sua parabola discendente e una seconda volta in modo più drammatico a distanza di pochi mesi. Settimane di attesa per Georges, un tempo indefinibile di inferno per Anne. La vita così come l’hanno finora vissuta subisce una virata drammatica in peggio e diventa impossibile vivere come prima. La dignità della donna è messa in discussione giorno dopo giorno. In un crescendo di situazioni sempre più disperate il regista gira le scene con la cinepresa ferma sempre nello stesso ambiente e sui volti dei due attori, in modo statico e monotono, esaltando la precarietà della loro vita. Costretti a vivere in un discreto appartamento parigino che mostra i segni del tempo e del passato i due attori sono bravissimi ad evidenziare stati d’animo che comunicano un trasporto emotivo e un dolore così intenso da paralizzare lo spettatore. Il film, nel secondo tempo, imprime una accelerazione violenta alla relazione fra i due, che fa passare lo spettatore da una partecipazione terza, pressoché estranea e disinteressata, ad un’altra più impegnata in prima persona quasi che la vicenda non interessasse più i due soggetti del film ma noi stessi. La vera forza di questo film è la potenza delle immagini che ci vedono specchiarci nel film come se fossimo noi i veri protagonisti di una vita futura da incubo ineluttabile. L’incalzare degli eventi è così ben calibrato e ben proposto che si passa sempre più da stati di pacata consapevolezza circa il tema della malattia degenerativa a stati di vera e propria ansia dagli sviluppi incerti in cui ci si chiede sempre più frequentemente che cosa potrà succedere di più grave di quello che si è già visto fino a quel momento. Quale sarà il finale? Già, il finale. In rete non ci sono recensioni che dicono come finirà. Tutte le informazioni si mantengono nel vago e nell’indistinto. “L'amore che unisce la coppia verrà messo a dura prova” recita una di queste. Ma che significa che verrà messo a dura prova? Che ci saranno difficoltà economiche per comprare medicine costose ad Anne? Che ci vorranno sforzi notevoli nel seguirla nel suo percorso di ripresa? Non si capisce. Tranne rare e poco conosciute recensioni che fanno cenno alla morte di Anne non c’è quasi nulla di preciso su ciò che sta per accadere alle due figure diventate per noi figure familiari. A Georges ed Anne, non solo ad Anne. Perché il dramma non è solo Anne allettata dalla malattia che la priva gradatamente di ogni facoltà e che la rende sempre più determinata a rifiutare medicine e cibo ma è soprattutto Georges, ovvero colui che appare più integro dei due, almeno nelle sue capacità psicologiche. Cosa passa per la sua mente quando nei rari momenti in cui si siede sulla poltrona e ascolta le note al piano di una registrazione musicale della moglie, in cui i suoi occhi la "vedono” alla tastiera del pianoforte come se l’onda del tempo si fosse fermata? In realtà la durezza, la spietatezza e la raggelante sequenza di idee che sviluppa il copione sono proposti dal regista per arrivare al punto in cui Georges commette l'insano gesto di uccidere per soffocamento la moglie con una lucidità e una determinazione che fanno male, molto male. Il film raggiunge vertici di drammaticità straordinariamente crudeli in cui la scena imprevedibile della morte per soffocamento della moglie fa da sfondo ineluttabile all’unica soluzione possibile, quella di una eutanasia volontaria che liberi la moglie e lui da ulteriori sacrifici insopportabili e, comunque, ormai inutili. Si tratta di 110 minuti di preparazione alla tragedia finale che lasciano in bocca l’amarezza che ci prende per i momenti successivi come se avessimo subito una devastante pugnalata allo stomaco. Sbigottiti dalla scelta del regista di far vedere la sequenza di immagini della morte di Anne siamo costretti a riflettere sull’accaduto per giungere a comprendere che il finale non poteva non essere che quello e quello soltanto: la morte di entrambi per scelta consapevole e concordata. Ci si ricorda a quel punto della scena iniziale del film, all’inizio poco decifrabile e senza senso dei vigili del fuoco che irrompono in un appartamento e trovano una donna anziana tutta vestita di nero morta da tempo in un letto. Era Anne vestita di tutto punto e dolcemente rivestita di petali di margherite che Georges, in un momento di struggente amore per la moglie ormai defunta, le ha comprato dal fioraio sotto casa dopo averla uccisa. Lo spettatore a quel punto è spacciato. Non ha più armi per difendersi dai duri e crudeli pensieri che lo pungono. Si percepisce subito che quel film lascerà su di esso e sulla sua vita futura una impressionante condizione di pessimismo cosmico. Il film introduce a questo punto una discontinuità tra “un prima” e “un dopo” della scena finale. L’interruzione e la rottura della continuità della vita non è tanto la morte di Anne. La sua morte era già stata compresa da tempo e non scombussola per questo. Il break vero e proprio è l’immagine della scomparsa della figura di Georges dalle scene successive che lasciano immaginare un suo gesto ultimo e disperato dopo la morte della moglie. Simona Pecetta, a questo proposito, dice che: "la morte e il morire che per lo più possiamo sperimentare sono il morire e la morte degli altri, di quelli che ci circondano e se la morte, per quanto assurda e imperativa, può essere compresa come condizione stessa del vivere umano il processo del morire, invece, non solo manifesta la fragilità umana, ma ne mette in questione la dignità. L'esperienza del morire dell'altro è allora una domanda che interroga l'uomo direttamente su cosa renda vita una vita. Che lo chiama a comprendere anche l'amore in nuove forme, in insoliti gesti". Avevamo già visto un altro film sull’eutanasia dal titolo Mare dentro, del regista spagnolo Alejandro Amenabar. Il paragone però non regge perché il film di Amenabar del suicidio assistito del paralitico allettato Ramòn Sampedro è prevedibile sin dalle prime scene e avviene con una forma di eutanasia che è attiva e neutra. Qui invece l’eutanasia è volontaria e soprattutto la storia avviene all’improvviso a mo’ di sorpresa. Amarissima ma sempre una sorpresa. Non ce l’aspettavamo. L’omicidio, perché di questo si tratta, è prodotto “a fin di bene”. Anne non può più parlare e dunque non può più vivere. La sua dignità di essere umano raggiunge il punto più basso nella scala dei sentimenti. Ormai nulla ha più senso per lei. Georges comprende che è finita per tutti e due. E dire che alcune scene danno l’idea che tra i due si fosse creata un’intesa che va oltre il non accompagnarla all’ospedale, ma di farla finita insieme, uno dopo l’altra. Sulla sorte di Georges il film non dice nulla. Ma è chiaro che la vita di Georges non ha più alcun senso. Mentre i sottotitoli scorrono sullo schermo nero ci sentiamo confusi, scossi e commossi come se ci avessero dato un pugno allo stomaco. Anzi molti di più e di seguito. E la mente che va per conto suo dove non dovrebbe mai andare: a noi, ai nostri familiari, ai nostri genitori, già morti da tempo e che con questo film sono morti una seconda volta creando di nuovo ferite mai risolte. I ricordi scorrono veloci e le sensazioni prodotte dalla storia di Georges e Anne creano assurdi handicap per il futuro. Il film obbliga a pensare in modo concreto e reale all’eutanasia. In Italia è ancora un tabù. Basti pensare a che cosa è successo con il “caso Englaro”, pallido esempio al confronto del contenuto del film di Haneke. Emanuele D'Aniello a questo proposito conclude la sua recensione del film Amour dicendo: «[...]nonostante tutto lo strazio ed il dolore, la povera Anne guardando vecchie foto capisce che una lunga vita vale la pena di essere vissuta. Certamente e giustamente, non va vissuta la morte».

1 commento:

G ha detto...

Una lunga lettera la sua, che ci impone la visione di questo film ed al contempo ci impone delle considerazioni.
Oggi la medicina ci consente di vivere più a lungo, ci ha sollevati e ci protegge da malattie che una volta, neanche tantissimo tempo fà ci avrebbero portato alla tomba. La società, quella in cui viviamo si è attrezzata nel frattempo al fatto che la vita media si sia allungata, età come quelle che si raggiungono oggi erano impensabili, però...
Però non ha tenuto il passo , anzi la ho forzato, della natura, questa ci consente di vivere dandoci tre tempi. La gioventù normalmente esente da problemi degenerativi tempo che ti sembra eterno e che ti dà la certezza che sarai immortale.
La maturità, iniziano le prime avvisaglie dei problemi futuri, in questo periodo i successi della medicina ci aiutano , chi più e chi meno, non tutti siamo uguali , c'è ancora una grande certezza delle proprie forze ed ancora sia pur latente la convinzione della immortalità.
Infine, purtroppo la vecchiaia, questo è il periodo peggiore che raggiungiamo, sia chiaro non tutti, ma in generale, con i malanni dell'età, quelli che senza la medicina non avremmo avuto perchè la natura avrebbe fatto il suo corso normale e selezionato , brutta parola !
Gli anziani nelle epoche passate venivano descritti ed additati come i depositari della saggezza, chi non ha letto i filosofi classici, tutti anziani e tutti saggi , con i loro acciacchi.
Oggi gli anziani vivono e debbono vivere prigionieri di una , chiamiamola condanna, alla vita , non alla vita quella che conosciamo, ma alla vita come sopravvivenza.
Un grande rispetto ebbi per l'autore di Per chi suona la campana, decise , autonomamente il suicidio, grande prova di coraggio, ne sono convinto, ma lo rispettai ed ammirai sopratutto nelle dichiarazioni che lasciò per spiegare il gesto.
La nostra cultura ci vieta di pensare in positivo alla dolce morte, non mi schiero pro o contro, ma certo fa pensare a quale vita conducono i soggeti ed i loro famigliari quando la famosa medicina di dichiara impotente, allora vivere sapendo come vivi, diventa intollerabile sapendo d'essere ormai un oggetto non più una persona che dipende, a volte , da estranei sapendo che la necessità più piccola deve e può essere soddisfatta solo se c'è vicino a te chi ti aiuta a soddisfarla, sapendo che, e questo è a mio avviso la parte peggiore non hai più la tua dignità privata.
Argomento difficile , quindi e proprio per questo argomento che non verrà mai portato a termine.

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