Finalmente! Adesso che è legge la proposta di studiare le “lingue laziali” le cose cambieranno. Oh, perbacco, se non cambieranno. Con l’arrivo nelle scuole dell’«ora di romanesco» la vita a Roma e nelle altre città del Lazio sarà finalmente, almeno sotto il profilo culturale, molto più degna di attenzione di quella attuale. Che la legge era sentita e che produrrà degli effetti rimarchevoli da tutti i punti di vista (scolastico, economico-finanziario, sociale, politico, culturale) viene compreso dal fatto che la legge è stata votata all’unanimità: tutti i rappresentanti di tutti i partiti hanno votato a favore. Un evento storico. Un terremoto educativo. Un avvenimento che ha dell’eccezionale. Finalmente anche a Roma si potranno conoscere, e in profondità, le radici della cultura della “lazialità”, vero motore culturale dell’Italia moderna. Una nuova vita, un nuovo Rinascimento appare all’orizzonte di chi vive nell’Urbe. Poche parole per commentare l’evento. «Francia o Spagna, purché se magna» è sempre stato questo il motto romanesco che finalmente potrà essere studiato nella sua immensa e incomparabile profondità culturale nelle scuole medie e superiori della città di Roma. Un messaggio significativo di vasta portata formativa, di crescita intellettuale e di civiltà è a portata di mano di tutte le scuole: è lo strumento educativo per eccellenza che finalmente porterà gli studenti romani ad essere più bravi di come sono attualmente, maggiormente consapevoli del carico di civiltà di cui sono portatori, e profondamente coscienti della grande responsabilità che essi hanno perché romani, ovvero “gente de roma”. Diciamo la verità: si sentiva da troppo tempo l’esigenza di ridurre di un’ora nella scuola lo studio dei curricoli nazionali a favore di un segmento di curricolo regionale. Un’ora in meno che cosa sarà mai! Via! Un’ora in meno alla settimana di Italiano o di Matematica non potrà fare male a nessuno. Non produrrà asini; al massimo qualche studente non azzeccherà un congiuntivo o non saprà fare una radice quadrata, tutto qua, mica morirà qualcuno! Il dialetto, invece, ci potrà dire tante cose. Potrà permettere di parlare del territorio con maggiore consapevolezza, potrà farci comprendere meglio certi comportamenti del popolo, delle sue tradizioni, delle sue radici, della vita e della visione del mondo che la comunità romana esprime e per cui è famosa nel mondo. Lo ha detto un professore di Dialettologia di un’Università romana. Personalmente dubito fortemente che con lo studio del dialetto i futuri cittadini di questa città saranno profondamente diversi da quelli di oggi. Il 22.05.04 avevamo scritto che generalmente nella società romana coesistono anche persone «accomunate da una rozza, arrogante e prepotente concezione della vita che si può tradurre in forma sintetica con la battuta che “il romano prende in giro tutti e fa fessi gli altri”. […] Una pericolosa miscela di autoesaltazione mitica di tutto ciò che ha a vedere con la parola Roma. Eredità vecchia di secoli e sorprendentemente ancora in uso, sopravvissuta al nuovo che incalza ma che non scalfisce riti e ritmi di una modalità di approccio alla vita di tipo arretrato, di basso profilo, che ricorda la “gente de cortello”, di duelli rusticani, di passioni elementari e di codici improntati a una morale arcaica. Quello dell’onore, sostituito di recente dall’esasperato tifo calcistico per la propria squadra, sono modalità di vita e quadri culturali in grado di condizionare chiunque non sia in grado di distinguere dove finisce la propria libertà e inizia quella dell’altro, dove termina la tradizione e dove inizia il localismo, ovvero quella forma esacerbata di campanilismo deteriore, tipico delle società chiuse. Ancorati a una morale che esiste solo in certi strati della società romana, presente quasi sempre o nelle borgate, in periferia, o in alcune ristrette zone centrali della città, è conseguenza di un falso senso dell’onore e di una falsa idea di solidarietà. La si riconosce da piccoli particolari come la gestualità, la mimica, la cadenza dialettale, i tipi di discorsi che vengono affrontati, il senso di solidarietà esistente solo tra simili e quasi mai per gli altri, dal nepotismo dilagante e chiave di successo economico, dall’abbigliamento, dall’uso sfrenato ed accentuato della moto superaccessoriata o dal fuoristrada, simboli di potenza e di presunta superiorità degli interessi del gruppo. Interessi che riguardano il desiderio di vedere affermata la superiorità della propria tradizione, mai palesata in forme di modestia, di altruismo disinteressato. Ma il massimo dell’idea deteriore di “romanità” la si nota nella sistematica attività di demolizione e nella non accettazione delle idee moderne di civiltà che vanno dalla correttezza e dall’onestà nell’amministrare la cosa pubblica al consenso nel concetto di norma valida per tutti. Gli aspetti negativi di questo modo di intendere la vita cittadina vanno dal completo disfacimento dell’idea di accettazione dei codici di comportamento, come del codice stradale nella guida degli automobilisti, alla totale assenza di interiorizzazione di regole civili di convivenza. In breve, si può dire che si va dagli abusi edilizi, peraltro effettuati in maniera sfrontata, ai reati più disparati che vedono spesso connivenze tra corruttori e burocrati, che è l'aspetto più odioso che si possa verificare. Dalla mancanza di rispetto delle norme di convivenza civile (buttare i sacchetti dell’immondizia nelle strade, svuotare le cicche dei portasigarette ai bordi delle strade, non rispettare i diritti di precedenza come nelle code sia in auto, sia negli uffici pubblici e privati) alle tragedie quotidiane del rifiuto esplicito ed arrogante delle norme di comportamento della sicurezza stradale (non rispetto della distanza di sicurezza tra autoveicoli, il sorpasso a destra come una costante della superiorità sugli altri, il percorrere i marciapiedi con le moto, il posteggiare su doppia e tripla fila, il passare con il rosso, ecc…). Ogni regola, pensata e scritta per produrre una società civile, qui a Roma, è vissuta come una corsa alla deregulation, in cui ci si diverte a non rispettare le buone regole di cittadinanza. Dal biglietto non obliterato sugli autobus e sulla metro alla sigaretta fumata in luogo pubblico, dalla gomma masticata e abbandonata sulla strada allo stereo e alla TV suonati a tutto volume, dal parcheggio delle auto che creano ostacoli alla circolazione al mancato rispetto del semaforo rosso, dalle manovre spericolate sui motorini agli elettrodomestici vecchi e non più funzionanti abbandonati sui marciapiedi. Insomma, la negazione dei doveri espressa da una cultura della cittadinanza irresponsabile che sta purtroppo alla base di una modalità del “non essere”. L'intreccio perverso, poi, tra chi dovrebbe controllare che non si verifichino reati e chi li commette è un'altra costante della vita sociale e politica della capitale. Impiegati, funzionari, vigili, dirigenti ministeriali, burocrati privati e pubblici di tutte le specie, negozianti, liberi professionisti, tutti accomunati da un’idea: quella di turlupinare gli altri. Truffe di tutti i tipi: truffe di privati ai danni di privati. Truffe di privati ai danni dello Stato. Truffe di mascalzoni che operano nel pubblico ai danni dei cittadini più deboli. Si potrebbe fare un elenco interminabile.[…]La spiegazione non è semplice. Non si tratta di un problema di tempi o di economia o di finanza ma di modalità di visione della vita e, dunque, è un problema che i sociologi definiscono ambientale, ovvero antropologico. Il romano è un soggetto che negli anni passati ha sempre vissuto in un habitat che dal punto di vista dei rapporti sociali è senz’altro definibile degradato. I vincoli classici della cultura e degli stili di vita scandinavi qui non sono mai riusciti ad essere né compresi, nè accettati. Il romano è sempre stato abituato a una esperienza di vita che, secondo Bateson, si potrebbe chiamare di “tipo precibernetico”. Con questa accezione si intende qui indicare l’atteggiamento di chi si dimostra incapace di comprendere l’importanza della vita inserita in un sistema complesso, relazionale, collettivo, sociale, collegiale, in cui, cioè, l’uomo si trova immerso in una panoramica di vita di tipo sistemico. A causa di una concezione ristretta e limitata ad aspetti inerenti alle difficoltà della sopravvivenza, il romano si è sempre mosso nella città come predatore, prendendo quanto gli serviva sul momento e senza preoccuparsi per niente delle conseguenze derivate dalla propria condotta. La ragione di ciò ha profonde spiegazioni antropologiche. In poche parole si tratta di uno stile di vita improntato all’unità di sopravvivenza che si riferisce alla famiglia e/o al gruppo.[…]». Ci basta, per concludere, riportare il giudizio di delusione che diede Stendhal nel suo soggiorno romano intorno al 1816. Stendhal rimase scandalizzato sia per lo stato di conservazione di alcuni teatri di Roma, sia per la mediocrità di certe manifestazioni culturali e religiose alle quali assistette nel suo mese di soggiorno romano. Diciamo la verità: di questa legge sulla “romanità” o sulla “ciociarità” e simili, in questo momento, non se ne sentiva proprio il bisogno. Non si è ancora capito bene che ci troviamo tutti su una nave senza timone, che sta colando a picco senza che nessuno si sia reso conto della tragedia immane alla quale stiamo silenziosamente andando incontro. Noi siamo contrari a questa legge per due motivi. La prima è che non si insegue Bossi e la Lega Lombarda sul terreno del campanilismo. Lasciamo ai “polentoni” queste armi politiche superate e fuori dal senso della storia. Non è più tempo di lotte politiche a suon di vessilli e carrocci. La seconda ce lo dice una frase in dialetto romano. Questa volta in dialetto appropriato, non la patacca di quello che vogliono spacciare per cultura: in latino, che è il vero dialetto di Roma che tutti dovrebbero conoscere. Vino vendibili suspensa hedera non opus est.
martedì 21 dicembre 2004
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