martedì 1 febbraio 2005

Fede e vita: un rapporto sofferto.

Come va, oggi, la fede religiosa in Italia? Non è necessario essere degli esperti se si afferma che abbiamo la sensazione che le cose non vadano molto bene. Siamo dell’avviso, infatti, che il cattolicesimo degli italiani perda terreno, anno dopo anno, lentamente, ma costantemente. Si va facendo strada, a nostro giudizio, una pericolosa forma di deriva religiosa che osiamo chiamarla, più propriamente, “religiosità atea”, in cui i fedeli vanno a messa ogni Domenica, ma nella vita privata di tutti i giorni, operano come atei, realizzano allegramente scopi conflittuali con la morale e l’etica religiosa e conducono una vita non proprio virtuosa e con poco senso della religiosità. Apparentemente irreprensibili dal punto di vista formale, svolgono una vita vuota e insignificante dal punto di vista dell’impegno concreto a mettere in pratica i principi fondamentali della dottrina di Gesù. Ci sentiamo di dire che convivono nei fedeli due tratti caratteristici: l’esigenza di dimostrare a tutti di essere dei credenti convinti e, contemporaneamente, di distinguere il senso religioso della Domenica con la vita pratica di tutti i giorni che, a loro parere, è un’altra cosa. Il cattolico medio italiano è un soggetto particolarmente insincero, un po’ ipocrita, che ha il disperato bisogno di giustificare a se stesso e agli altri di essere un sicuro difensore della dottrina cattolica, ma nello stesso tempo crede che sia possibile svolgere (continuare) una vita, che in molti casi, inevitabilmente, va contro i dogmi della Chiesa. Tipica, a questo proposito, è la massima che circola ipocritamente tra questa gente, che dice: “nel commercio il furto non è peccato”. E poi tutta una serie di comportamenti quotidiani “feriali”, ovvero dal lunedì al sabato, insignificanti, che evidenziano una decisa lontananza dai principi morali e religiosi affermati dalla dottrina della Chiesa. Attenzione. Non stiamo dicendo che tutti i cattolici sono così. Si tratta della maggioranza, silenziosa, inclassificabile perché poco presente, poco incline a comportamenti vistosi, che “lavora tutti i giorni” e va a messa tutte le domeniche. Non si tratta della minoranza, praticante, impegnata nel sociale, convinta e consapevole dell’importanza della missione della Chiesa. Questa minoranza è adeguata al ruolo che le si chiede, svolge un ottimo servizio e più non insistiamo. Qui ci riferiamo all’altra, indigena nella forma ma straniera nella sostanza, non disposta ad appoggiare, con atteggiamenti concreti e tangibili, una Chiesa che è sempre più impegnata nel magistero. Si tratta, in definitiva, di persone che non sono disposte a seguire gli insegnamenti del Vangelo in prima persona. Troppo forte è il distacco dalla parola di Cristo. A conferma di quanto detto vi è la sempre incompresa e inammissibile parabola del figliol prodigo, che da sempre non è accettata né nel metodo, né nel merito. Viceversa, questi aderenti, si preoccupano di pensare troppo al proprio particulare, al guadagno, che è diventato ragion d’essere della loro vita e fine dell’esistenza umana. Lo si nota dal fatto che queste persone ascoltano con poca attenzione le omelie dei sacerdoti, concordano in modo acritico sul ruolo della Chiesa nella società, e soprattutto non partecipano con azioni concrete ai progetti che la Chiesa crea per le missioni o per i poveri. In questa prospettiva, è tipico un certo atteggiamento di fuga, di deresponsabilizzazione, di doppiezza e di cinismo verso i problemi della fame nel mondo, dei diseredati, dei bisognosi, degli immigrati che hanno bisogno di tutto. E le cose non vanno meglio se ci si proietta in un futuro non immediato. I fedeli in Chiesa hanno sempre di più un’età media molto elevata, i giovani non accorrono a frotte ma partecipano in quantità non rilevanti, modeste, sebbene con grande e smisurato senso dell’altruismo, della generosità e del senso del dovere. Insomma, è un bel problema. Si vive in questo iato continuo, con una scissura permanente e contraddittoria tra quello che c’è e quello che potrebbe esserci. Se intervistati, nell’anonimato, si lasciano convincere ad essere veritieri e spuntano fuori considerazioni imprevedibili e incongrue. Un esempio? Intervistati sul perché in Chiesa si distraggono durante l’omelia a pensare ad altro, affermano che i “sermoni” sono sempre troppo vicini alla teologia e non danno spazio agli interessi quotidiani dei fedeli. Quasi sempre il commento del Vangelo è un discorso interminabile, noioso, infarcito di tecnicismi teologici, che interessano relativamente la “gente del popolo” come loro e che poco hanno a che vedere con la realtà quotidiana in cui essi vivono. Realtà difficile, che li impegna a vivere in un mondo dominato dalla fretta e dall’ansia del lavoro, in cui non c’è molto spazio per la vita spirituale. A loro giudizio, il celebrante si sintonizza quasi sempre su sermoni che producono ragionamenti pieni di rimprovero verso la gente cinica, che prevedono “predicozzi” non piacevoli per la loro risolutezza nello smascherare le ipocrisie e gli atteggiamenti di fuga dalle responsabilità. Mentre, viceversa, loro hanno tutto, il fuoristrada o la moto superaccessoriata, l’ultimo modello di cellulare senza fili, l’ultimo vestito alla moda, il conto corrente consistente e l’investimento effettuato con l’ultima certezza della finanza sicura. Il cenno di ritrovarsi menzionati come persone fortunate della società dei consumi, ai quali non manca nulla, irrita e rimane quasi sempre inascoltato e subito dimenticato. È così? Purtroppo, con buona pace dei sacerdoti, pensiamo che le cose vadano in questo modo.

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