mercoledì 14 luglio 2004

La memoria e la pensione: un rapporto conflittuale?



                  Dal “Diario” di un insegnante prossimo alla pensione.


Da pochi mesi ho raggiunto l'età della pensione. Trentuno anni di servizio (qualcuno aggiunge "onorato"), più quattro di riscatto laurea e fanno 35. Oplà! La fatidica soglia dei 35 anni è raggiunta. Da questo momento potrò chiedere di andare in pensione in qualsiasi occasione. Lo farò? E qui viene il bello. A questo punto la faccenda diventa ingarbugliata, complessa, di difficile interpretazione. "Sì, il prossimo anno andrò senz'altro in pensione" aggiungo quasi subito. E poi continuo dicendo: "Sono convinto che sia ora di finire questa lunga storia di lavoro iniziata trentuno anni fa, in una fredda e umida giornata di autunno". Lo dico a me stesso, nella mia mente, in silenzio ma con sicurezza. Probabilmente, la fiducia che mostro a me stesso è più apparente che reale, ma sembra esserci o, almeno, credo. Se non altro mi sforzo di farla apparire. "La scuola di oggi non è più quella di una volta", proseguo nei miei pensieri. "Dunque, è meglio chiudere qui l'esperienza e pensare al futuro". La voce continua a non esserci, ma la decisione esiste, anche se non è definitiva. "Si, andrò in pensione. O meglio, aggiungo subito dopo, volevo dire che il prossimo anno chiederò di andare in pensione. Ovverosia, volevo dire che il prossimo anno, forse, chiederò di andare in pensione". Comincio ad essere ondivago, poco sicuro, pieno di dubbi, di tentennamenti, anche se vorrei mostrare il contrario. La sensazione che provo è strana. E' come se qualcuno mi stesse suggerendo di fare attenzione alle decisioni irrevocabili. Mai sbilanciarsi troppo, non conviene. La memoria mi avverte che potrei pentirmene, dunque, è meglio essere prudenti. "No. Il prossimo anno è ancora presto per andare in pensione. Rimando tutto di un anno". Ecco, finalmente l'ho detto. Dopotutto si tratta di un solo anno. Il mio desiderio di lasciare aperta la possibilità di non andare in pensione si è concretizzato ed ho avuto il coraggio di dirlo, finalmente! Erano mesi che lo nascondevo a me stesso e agli altri. La preoccupazione non c'è più; è come se si fosse sciolta, come neve al sole. "Il prossimo anno devo portare gli alunni dell’ultimo anno agli esami di stato conclusivi", aggiungo con maggiore impeto e ipocrita determinazione. "E non è corretto lasciarli ad un altro insegnante con il quale non hanno preso abitudine e confidenza". Mi meraviglio di essere stato così deciso, capace di eliminare qualunque incertezza, in grado di sgombrare il campo da possibili cedimenti o ambiguità. Che bugia impressionante. Che teatralità. Come si può consegnare la propria vita privata, il proprio futuro nelle mani di studenti sconosciuti, che non vedrò mai più al termine del prossimo anno? Come si può pensare di far decidere agli altri, vicende che riguardano solo me stesso e che interessa solo la mia vita. Impossibile. Ma ormai sono in discesa e devo insistere. Non posso più fermarmi, devo andare subito a una conclusione ancora più convincente. "Dunque, diciamo che il prossimo anno ci penserò". Siamo all'apoteosi. Adesso ho completato la recita e, come un attore consumato sul palcoscenico del teatro, con pause studiate, aggiungo: "sì; forse, è meglio così. E' meglio decidere di non decidere adesso. Ci penserò". Adesso mi sento meglio. Per poco non ero costretto a prendere una decisione contro voglia. Guarda tu, se è mai possibile essere costretti a decidere un evento così importante nella vita di un individuo senza che ci siano le condizioni minime per poter decidere. Perbacco! Se ne parlerà in seguito. Fra uno o due anni deciderò una volta per tutte. C'è tempo. Eccomi finalmente sereno, tranquillo, come se avessi preso un calmante. Kafka, in una situazione analoga, ha scritto: "a volte a volte disperato nelle vie deserte e calmato sul divano". Proprio così. Adesso, come Kafka, non mi sento più inquieto. Sono calmo, stranamente quieto e accomodante. Ma non avevo fatto i conti con un’altra circostanza, perchè dietro l'angolo si nasconde un’insidia. "Scusa, ma perché fino all'altro giorno dicevi di non vedere l'ora di andare in pensione e adesso sposti tutto alle calende greche"? E' la voce della mia coscienza che mi chiede del perché di questo cambiamento. Cerco disperatamente di risponderle, ma non trovo né le parole, né le idee. Forse la vera ragione è che con la richiesta di andare in pensione devo prendere coscienza che sto diventando vecchio e ancora non sono pronto. "Non è questione di vecchiaia. Si tratta di una giusta decisione che favorirà i miei studenti”, aggiungo. “Potranno approfittare della presenza di un docente più maturo, maggiormente esperto, con una robusta professionalità per migliorare il loro apprendimento. La società ha bisogno di docenti con tanta esperienza". Altra gigantesca bugia. Ma adesso non ci sono più freni. Eppure, le cose non vanno completamente lisce. Non mi sento a mio agio. E' come se avessi fatto capolino in un ambiente che non ho mai frequentato, in un mondo che ancora non mi appartiene, che per me è tutto da scoprire. Mi mette a disagio. Il fatto è che tutta questa vicenda mi ha costretto, per la prima volta, a pensare al futuro vitalizio. Forse, comincio a pensare che si stava meglio quando si stava peggio. La vecchiaia, i capelli brizzolati, la calvizie ormai non più incipiente, i peli della barba che diventano sempre più bianchi col trascorrere dei mesi, le arterie del dorso della mano continuamente ingrossate, le borse sotto gli occhi sempre più gonfie, il corpo non più da atleta, la stanchezza che diventa sempre più palese e persistente al minimo sforzo, i pensieri che diventano sempre meno speranzosi. Insomma, un cumulo di situazioni nuove, di pensieri mai prima considerati. Tutto questo incombe quando il passato diventa sempre meglio del presente o, a dir poco, che sembra tale. E, purtroppo, mi sento di riconoscere che le cose stanno proprio in questo modo. Ricordo quando con le prime supplenze osservavo i vecchi professori che non comprendevano il nuovo che avanzava ed erano fermi al vecchio. Li guardavo con commiserazione. E non vedevo l’ora che fossero andati in pensione, inadeguati come erano sul piano fisico di tenere testa alla missione che avevano di insegnare ai giovani la scienza. Vedevo questi vecchi professori incapaci di sintonizzarsi sulle esigenze della allora modernità. E adesso, io sto diventando come loro. Chi lo avrebbe mai detto? La mia memoria sta cominciando ad essere troppo critica con me stesso e diventa pericoloso esercitare questa facoltà. La memoria del passato mi fa male. Mi rende triste, mi angoscia. Mi ricorda che il tempo è "galantuomo", cioè inesorabile. Il solo pensiero di ricordare "il prima" mi rende inquieto, mentre io non voglio dimenticare "il dopo". Ma non ci riesco. Sono quei momenti che mettono in crisi chiunque. Speriamo che passi subito questo brutto momento. E' questo, in fondo, il vero motivo del perché ho cambiato idea a proposito della data del trattamento di quiescenza. Sì. Questa è la vera ragione. Non è più il caso di mentire. A questo punto non ha senso dire bugie. E, dunque, continuerò a insegnare ancora qualche anno e così facendo non ricorderò più il passato. Mi concentrerò solo sul presente. Ma avrò risolto il problema o lo avrò solo spostato nel tempo con il rischio di ingigantirlo in futuro? Faccio finta di non saper rispondere e andiamo subito a preparare la prossima lezione. Coraggio. Rimbocchiamoci le maniche. Si ricomincia. La pensione non è un traguardo se si prova gioia a fare questo lavoro. Bisognerebbe non dividere mai il lavoro dalle vacanze. E quando si è in vacanza ci si dovrebbe divertire lavorando, mentre quando si è al lavoro bisognerebbe lavorare divertendosi.

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