Oggi è un giorno speciale: ricorre il mio compleanno. E in una giornata speciale, non si può non pubblicare che un articolo speciale, serio, che permetta un istante di riflettere su cose meritevoli di considerazione, importanti. Pubblico una mia recensione. Si tratta della recensione di un film che mi è piaciuto. L’ultimo che ho visto.
Dal pressbook:
«"L'Amore di Màrja" non è una storia d'amore. E' la storia dell'Amore e della coerenza nell'Amore. Màrja è finlandese ha vent'anni, sono gli anni '70 e i suoi amori sono la pace, la fiducia nella possibilità di costruire un mondo nuovo con il suo compagno, Fortunato.
Fortunato è siciliano, lui e Màrja parlano due lingue diverse ma hanno gli stessi sogni. Insieme vanno a vivere in una comune e hanno due figlie, Alice e Sonia. Adesso Màrja ha altri due grandi amori: le sue figlie. Alle sue bambine insegnerà la pace, il potere dei sogni e della fantasia, la libertà della mente. Ma quando per tutto il resto del mondo il sogno della rivoluzione finisce e Fortunato dice a Màrja che è ora di diventare "adulti" e di "adattarsi" alla vita, Màrja non può abbandonare gonne hippie e sogni, non può farlo. Segue Fortunato in Sicilia, a casa sua, ma non smette di parlare a Alice e Sonia di un mondo sommerso, un mondo da trovare e da scoprire, un mondo di pace. E nonostante il pregiudizio, un ambiente esterno che rifiuta l'integrazione, sarà il "mondo sommerso" quello che Alice e Sonia inseguiranno sempre.
Cercheranno ovunque il mondo di pace, il mondo senza differenze, anche quando da grandi si sentiranno abbandonate da Màrja, tradite dal sacrificio della donna che per le sue figlie si perde, si annulla. Apparentemente.»
Avevo letto svogliatamente, nelle note cinematografiche di alcuni quotidiani, una breve recensione di questo film e mi ero ripromesso di andare a vederlo. Per curiosità, ma anche per altro. Mi è venuto il desiderio di vedere come la regista avrebbe affrontato il caso di un siciliano che ritorna nel suo paese natio, con la moglie straniera del lontano nord e le sue due bambine, per provare a vivere di nuovo nella realtà di un paesino così terribilmente diverso da quello della moglie. La trama, i personaggi, l’ambiente, gli attori, il regista, tutto invitava alla curiosità. Insomma, sembrava trattarsi di una visione non scontata e verosimilmente interessante.
Il film l’ho visto in un caldo e afoso pomeriggio, un pomeriggio pieno di desideri di evasione dalla quotidianità. Disponibile alle emozioni, ho pagato il biglietto e sono entrato in sala. “Straordinariamente interessante” è il giudizio che mi è venuto in mente alla fine della proiezione. Perché straordinariamente interessante? Che cos’ha di tanto speciale questo film da aver suscitato in me tanto interesse? Diciamo che due sono le ragioni che mi hanno indotto a considerarlo degno di attenzione. La prima ha a che vedere con il punto di vista di uno spettatore siciliano interessato alla vicenda, che conosce la realtà dei luoghi in cui è ambientato il film e la filosofia di vita che lo caratterizza. La seconda, dal senso dell’opera e dalla retrospettiva psicologica che il film apre alla riflessione personale.
Dal punto di vista cinematografico è un film ricco di significati, non è per niente banale e sfrutta un’idea originale. Il valore del film sta anche nella bravura degli attori adulti e bambini, nella capacità della regista di aver saputo costruire un’opera cinematografica plausibile e coerente con i temi sviluppati, che rispecchia moltissimo la realtà indagata. Ma la ragione più importante è da ricercare nella straordinaria capacità che ha il film di far provare emozioni. Non temo smentite se affermo che ci si commuove.
E’ un film straordinario perché vero, che racconta fatti come se fossero realmente accaduti, come se fossero stati scovati, da qualche parte, nel nostro vissuto. Si tratta di un’analisi spietata e realistica della condizione e della prospettiva di vita che può avere una famiglia nel profondo sud d’Italia se si fosse trovata nelle condizioni dei protagonisti. Condizione di vita che impone costrizioni e catene a chi tenta sventuratamente di penetrare tra le maglie della società meridionale manifestando il proprio pensiero in modo autentico, senza ipocrisie, proponendo modelli di comportamento secondo la propria visione del mondo. Società insulare che, nonostante ci si trovi alla fine del XX secolo, è rimasta profondamente intollerante e arcaica come un secolo fa. Parliamo di una società che discrimina non tanto perché è intrisa fino al midollo di superstizioni, di falsi miti, di pseudotradizioni e di assenza di ideali ma, soprattutto, perché è malata nel sistema dei valori umani.
Il film è temerario perché per la prima volta, con semplicità e straordinaria efficacia, affronta un tema di per sé carico di significati profondi che in genere gli indigeni tentano di nascondere, perché ritenuti disonorevoli. Per la prima volta in un film sulla “sicilianità”, si riesce a mettere a fuoco, con rara efficacia e grande maestria, fuori dagli stereotipi del siciliano con coppola e giacca di velluto, i difetti di quella società attraverso i gesti e i ritmi di vita condotti da bravi attori, non certo famosi, che interpretano il loro ruolo in modo verosimile ed espressivo. Valenti attori che non si identificano soltanto con i due principali protagonisti, ma anche con figure e ruoli che apparentemente sembrano marginali, ma che secondari non sono nell’economia del racconto cinematografico. Il gruppo di giovani che nella noia quotidiana della loro vita vuota e banale, palesano maschilismo e limitatezza umana. Il gruppo di avventori del “bar di fronte” che manifestano la loro reale concezione della vita calunniando in continuazione la povera moglie straniera. Tutto tremendamente realistico. Chissà quante altre volte si è verificata una situazione del genere in altre cittadine della Sicilia negli anni passati. L’incapace e insensibile suocera della protagonista che recita un classico ruolo di personaggio freddo, ostinato e, a tratti crudele, nella sua gretta e limitata concezione della vita. Per non parlare di un’efficace maschera di cognata professoressa, che in apparenza potrebbe sembrare che difenda la protagonista in quanto donna, ma che in realtà è un personaggio in negativo della società meridionale, senza alcun senso critico intorno alla immane tragedia che sta scuotendo la cognata e falsa nella sua condizione di donna di successo in quella società, per il solo fatto di avere un titolo di studio, un “pezzo di carta”.
Un quadro a sé rappresenta il marito di Màrja, che merita un discorso a parte. Non so quanto volutamente, ma sembra che la regista abbia collocato il padre delle due deliziose bambine, al centro di un grande buco nero, in cui tutto è possibile immaginare sulla sua personalità ma che nulla è chiaramente delineato. Non so quanto possa essere stata intenzionale la scelta della regista di nascondere il retroscena psicologico che la lega al padre. Questo sconosciuto, di cui non si sa quasi nulla se non che lavora “per mantenere la famiglia”, che si esprime in un buon parlato dialettale ma che rimane una figura inetta, senza tratti decisi di padre che ama, sullo sfondo di una imminente tragedia. Il ruolo di marito siciliano gli si addice bene nel momento in cui assume il ruolo di tutore economico della famiglia, la sola cosa che sembra importargli. Quasi mai in primo piano se non con interventi e azioni di padre insensibile alle esigenze affettive della moglie, fugge dalle sue responsabilità sistematicamente, per il solo fatto di non porsi delle domande su dove stia andando la sua famiglia. Il quadro di comportamenti e di relazioni che lo caratterizzano lasciano supporre una personalità immatura di giovane di famiglia, coltivato e sempre giustificato dal contorno familiare. Manifesta più volte il suo sconcerto di marito, laddove non riesce a capire che nella vita coniugale esistono altri aspetti, altrettanto importanti oltre gli interessi economici. In poche parole, si ha la sensazione che è quasi come se si volesse dire che “il padre ha delle responsabilità, ma non è consigliato approfondire i suoi difetti”. Sicuramente è un debole, una persona senza energia, incapace di mostrare tutto l’affetto che dichiara in continuazione di nutrire per moglie e figlie, che non ha la capacità o, addirittura, il coraggio di comprendere Màrja immersa nelle mille difficoltà che la società siciliana impone a chi proviene da una cultura diversa. Un individuo interessato solo a giustificare la propria esistenza col solo scopo del guadagno di denaro per mantenere la famiglia. Se ne trovano molti di questi soggetti nella Sicilia di tutte le province. Sono uomini che vivono non “per la famiglia” ma “per il buon nome” della famiglia, ai quali interessa solo non essere mai “sulla bocca della gente” e il cui massimo obiettivo nella vita è essere sintonizzati sull’assoluto conformismo della società del luogo.
Il marito è un uomo meridionale, che inizialmente, al di fuori del contesto natio, nella fredda terra scandinava è sembrato essere un giovane come gli altri, che inserito in un ambiente non suo si è dovuto adeguare alla cultura del paese nordico che lo ospitava, per non rimanerne emarginato. Probabilmente ha nascosto la sua vera natura, ha approfittato della sua originalità esotica, fisica e geografica, proveniente da una terra lontana, mediterranea, latina, dai capelli e dagli occhi scuri. Ha fatto colpo su Màrja, approfittando della tradizionale ospitalità scandinava, creando i presupposti per una sua vita sociale in quelle fredde terre del nord. In verità, aveva altri scopi. Probabilmente il suo vero traguardo era quello di rientrare in Sicilia appena lo avesse deciso. Magari si sarà più volte lamentato per il cibo, per la mancanza di calore della gente del luogo, per il clima, per la presenza sistematica della neve, per il freddo. Lui che nel suo paese non l’ha mai vista una sola volta nella vita, in cui il sole e le bellezze della natura costituiscono lo sfondo delle sue reiterate richieste di rientro nella terra del sole e della luce. La sua costante preoccupazione sarà stata il rientro a casa sua, dai suoi genitori, ossessivo fino al fastidio più completo. Gli serviva il rientro perché la nostalgia degli amici al bar lo sollecitavano a far vedere la sua bravura nell’avere convinto una brava e bella ragazza bionda a sposarlo. Ma reinserito nel suo vecchio ambiente ritrova tutti i motivi per essere di nuovo un vero siciliano, in negativo. Emergono così i suoi difetti, i suoi limiti, profondi come solchi che dividono, invece di unire. Ritorna a parlare una lingua diversa di quella di Màrja, non riesce più a comunicare neanche con le figlie. Ma, soprattutto, non è più in grado di intendersi con la moglie, di cui non capisce più i sentimenti e le esigenze affettive che lo avevano indotto a sposarsi. Adesso le parti si sono invertite. Ed è Màrja che desidera ritornare nel suo paese. Fino all’arrivo in Sicilia era riuscito a mascherare le sue lacune, i suoi difetti, la sua impreparazione alla vita, a causa anche della mancanza di studi, perchè non era laureato come la sorella, conseguenza delle sue scelte giovanili. Ma adesso, reinserito nella vecchia cultura e sotto la tensione e i condizionamenti adoperati dall’ambiente, è costretto ad essere se stesso, a non poter più mentire con gli altri e così emerge per intero la sua figura di soggetto mediocre, frustrato dalla mancanza di un posto fisso, tipica esigenza delle famiglie meridionali. Un uomo che, davanti alle mille difficoltà incontrate dalla coppia, riesce a trovare la scusa per evadere dalle sue responsabilità è un pavido, non è un uomo. E così emigra di nuovo, lasciando il paese. Strano destino il suo. Questo passaggio nel film è tuttavia un po’ oscuro, incompleto, lascia aperto uno spazio di ambiguità. Egli, comunque, sembra trovare un po’ di fortuna all'estero, riesce a dare mezza sicurezza economica alla famiglia ma produce un disastro dal punto di vista dei sentimenti e dell’affetto. Ma i soldi non bastano mai e la vita delle tre donne, praticamente abbandonate e lasciate completamente sole alla mercé delle malelingue del paese, alimenta una drammatica esistenza. Che colpo al cuore è questo per Màrja che crede fermamente nell’affetto e nel legame del matrimonio. Non è importante la religione, cattolica o luterana. E’ maledettamente importante lo stato d’animo, l’ansia, l’angoscia che si prova quando sono in ballo valori come i sentimenti dei bambini piccoli, abbandonati dal padre. E’ essenziale l’amore verso la propria moglie, il senso dell’infinita solitudine che esiste al di fuori del tradizionale scenario di una famiglia unita, raccolta intorno all’albero di natale, con o senza stella in cima. La vita delle tre donne, pertanto, diventa ogni giorno sempre più difficile, diventa colma di angoscia, piena di paura di emarginazione, di violenza subita a scuola e fuori della scuola frequentata dalle figlie, che produce nella giovane mamma finlandese un trauma violento e subdolo, che la avviluppa nella spirale di una terribile malattia mentale. La malattia, ovvero la cosa peggiore che può capitare a una donna meridionale. Una pazza, da tenere lontana, come un’appestata. Incompresa, guardata male, ingrassata, alla donna non rimane altro che la clinica mentale, severo e terribile tribunale che emette solo condanne. L’effetto della sua provenienza, la conseguenza del marchio d’origine impressole dal paese nordico da cui proviene, in cui le donne sono solo nel migliore dei casi svergognate donnine allegre o peggio un diavolo nascosto sotto i capelli biondo grano con il corpo piacevolmente snello, ha un solo risultato: la depressione e l’autoisolamento.
E’ un film che fa toccare con mano i difetti, i condizionamenti, i limiti e le incapacità di un mondo che sa offrire solo apparenze e finzioni. Il teatro dell’angoscia è peraltro ben rappresentato dalla regista con il trascorrere degli anni dei protagonisti, che procedono verso cambiamenti irreversibili, percepibili non solo dalla trasformazione del linguaggio delle figlie, ma anche di prospettiva di vita. L’universo familiare sta cambiando, anno dopo anno. Non sono più gli stessi. Non si riconoscono più. I protagonisti del film vivono la loro condizione di alienazione costretti ad alimentarsi dell’unico cibo a loro disposizione, cioè i difetti della società locale, società malata di conformismo e di omertà, che diseduca i figli e li fa crescere alla corte della peggiore delle educazioni possibili.
Nel film si notano una denuncia dei mali della società attuale, con i suoi falsi miti: l’ostentazione del denaro come status sociale, la degradazione dovuta alla droga come falso e illusorio tentativo di evasione. Ma anche il conformismo, l’omertà e il cinismo sono aspetti affrontati bene dall’ottima regista. Il film offre spunti e sollecitazioni interessanti alla riflessione personale che sono degni di attenzione e permettono alcune letture seminascoste di tipo bergmaniano fra le pieghe dei fotogrammi.
Bellissima e straordinaria è la recitazione delle due bambine, soprattutto forte e profonda riesce l’immedesimazione nel personaggio alla giovane Erika Lepistö, nella parte di Alice bambina. Cosa dire di queste due dolci creature? Tutti abbiamo voluto avere nella nostra vita di genitori due bambine come loro. Belle, educate, sensibili, affettuose, intelligenti, con un perenne sorriso tra le labbra non si può dire che si rendano mai sgradevoli. Ma la caratteristica che sorprende è la loro capacità di diventare complici con la madre nei momenti difficili della loro esistenza. Complicità che non verrà meno nella vita. Toccanti nel momento in cui riescono a comprendere l’amarezza e l’angoscia della madre alla notizia che la nonna nordica è morta. Straziante è per lo spettatore, assistere a questo insopportabile effetto della durezza della vita. E’ il momento in cui le lacrime possono correre copiose sul viso dello sgomento spettatore. Entrambe le bambine riescono magistralmente a evidenziare un quadro affettivo commovente per la loro toccante carica amorosa e sentimentale che riescono a manifestare. Sorprendenti creature, solo motivo per la sopravvivenza di qualunque madre, si comprende come l’amore di Màrja per le figlie le abbia potuto far superare in parte la crisi mentale di cui è stata vittima per le ragioni citate in altra parte di questa modesta riflessione. Sulle bambine si pensa che si possa dire poco. In realtà non è così. Cosa può esistere di maggiormente significativo nella società siciliana se non i figli? Non dimentichiamo che i siciliani sono famosi per il forte legame che riescono a stabilire tra i membri di una famiglia. In particolare tra genitori e figli. Famose sono le vicende narrate nella letteratura in cui si raccontano i rapporti intensi tra madri e figlie.
Ma la prima lettura, quella dominante per tutta la durata dell’opera, è chiaramente l’interpretazione magistrale della coraggiosa figura di Màrja, il suo protagonismo positivo, nel bene e nel male, la sua rinuncia alla fuga, nonostante le forti delusioni e i pesanti condizionamenti, al limite del ricatto. Sì, anche questo. Tragedia dei nostri tempi, anche qui si fa ricorso a questo cattivo esempio di condizionamento. “O fai quello che ti dico io oppure i bambini rimangono qui con me e tu vai via”! Ecco. Le parole che nessuno vorrebbe mai sentire sulla bocca del coniuge. Non so quante donne, oggi, non sarebbero fuggite via da quell’uomo anaffettivo, con o senza figlie, e da una società, incapace a sua volta, di fare, come dice la regista, “passi decisi per favorire il suo inserimento nella nuova realtà, così diversa dalla propria”. La mancanza di qualunque accenno a odio, vendette, cattiverie, e violenze tipiche, viceversa, della società indigena, insieme al forte senso di responsabilità che caratterizza la sua intera vita consumata nel paesino per permettere alla figlie di avere un futuro dignitoso è una delle cose più positive e insieme la chiave di lettura privilegiata per una corretta interpretazione del senso autentico del film. L’amore per le donne e l’amore delle donne, tocca qui l’apice e rende lirica l’interpretazione di Màrja.
Altrettanto si può dire dello struggente messaggio finale che il film propone a conclusione di tutto il percorso. Una nuova vita, da nonna insieme alle figlie, nella capitale, che nasce dalla scelta di abbandonare definitivamente il paese del marito. Forse, quella della partenza, con la prevedibile figura del piroscafo che collega le due sponde dello Stretto e del lungo nastro di asfalto che si sviluppa tra il luogo di perdizione isolano e la nuova vita romana, è un alto momento lirico, catartico, indispensabile per rinascere a nuova vita.
Allo spettatore normale, queste scene possono non dir nulla. E’ un suo diritto. Ma allo spettatore interessato alla indagine psicologica, sottile, tipica dei film scandinavi, dicono invece molto. Non esiste siciliano che non associ al concetto di ritorno, nei cari luoghi della nascita e della propria fanciullezza, il ricordo del ruolo che svolge il “ferryboat”, nel suo immaginario della terra natia. Non si tratta di un semplice collegamento fisico con i luoghi della propria infanzia. C’è molto di metaforico e il senso di una intera vita si racchiude nelle fortissime sensazioni dell’emigrante che ritorna, o che parte, dalla Sicilia con i profumi intensi del mare dello Stretto e degli arancini di riso che si mangiano sulla nave. Le immagini del porto siciliano e delle sue case che si avvicinano sempre di più, o, nel caso inverso, che si allontanano decisamente verso un orizzonte che lascia tutti in preda a una straziante nostalgia e solitudine, costituiscono un elemento inscindibile per dare “senso” al viaggio dell’emigrante che parte ma non sa quando ritorna, che si allontana ma non sa quando rientra.
Il film esce vincente anche perché è un film pulito, aggraziato, senza la presenza di scene di violenza gratuita, così come è un successo straordinario oggigiorno vedere un film senza scene di amplessi sessuali ancor più inutili.
Straordinaria storia ed eccezionali le sensazioni e le forti emozioni provate durante e dopo la visione al ricordo dei vari fotogrammi. Efficaci e toccanti le musiche. E’ un film che ne esce bene e rimane un buon esempio di cinematografia artistica. Auguri alla regista per la sua futura attività. Peccato che il film non è stato compreso interamente dal gotha cinematografico italiano, tutto preso da una filmografia imbellettata di bellimbusti muscolosi e di attrici troppo truccate in mediocri pellicole di attualità.
lunedì 5 luglio 2004
“L’amore di Màrja”, finalmente un film interessante con tante emozioni.
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